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Stati Uniti

Lo State of the Union di Trump: fra appelli bipartisan e una nuova polarizzazione

Gianluca Pastori
06 febbraio 2019

Con una settimana di ritardo rispetto alla tradizionale scadenza di fine gennaio, Donald Trump ha tenuto al Congresso il suo terzo discorso sullo stato dell’Unione. E’ stato un discorso in parte diverso da quelli degli anni passati, che ha riflesso sia le tensioni che attraversano oggi la politica USA, sia i cambiamenti più profondi indotti dagli esiti delle ultime elezioni di midterm. Le coordinate sono note: il voto del 6 novembre da una parte ha riportato la Camera dei Rappresentanti in mano democratica con una solida maggioranza di 235 a 198 (con due seggi ancora disputati o vacanti), dall’altra ha rafforzato la – prima scricchiolante – maggioranza repubblicana in Senato (ora 53 a 45 a favore del Grand Old Party), delineando così uno scenario di Congresso diviso.

Parallelamente, all’interno del GOP, il voto ha portato a un rafforzamento della linea presidenziale, segnalato anche dalla recente convergenza di alcuni tradizionali avversari di Trump intorno all’idea di una sua ricandidatura nelle elezioni del 2020. Lo scontro delle scorse settimane intorno al tema del bilancio federale – con il conseguente shutdown e l’instabile compromesso ora in vigore – è solo il primo prodotto di questo scenario. Già da prima dell’insediamento formale delle nuove Camere, lo scorso 3 gennaio, i rappresentanti democratici avevano, infatti, annunciato la volontà di fare un’opposizione ‘dura’ soprattutto sui temi sensibili dei diritti umani, della spesa militare, dei rapporti con la Russia e della politica internazionale, rilanciando il ruolo del Dipartimento di Stato nella sua elaborazione e implementazione e mettendo in discussione il legame privilegiato con l’Arabia Saudita, voluto e sostenuto dal Presidente.

Su questo sfondo, il discorso di Trump è stato, per molti aspetti, conciliante, segnato da un appello esplicito all’unità e dall’invito a evitare ‘una politica della vendetta’ che avrebbe conseguenze anzitutto sul ‘miracolo economico che sta avvenendo negli Stati Uniti’. Il Presidente è stato quindi attento a toccare tutta una serie di temi bipartisan, primo fra tutti quello della difesa del ‘lavoro americano’, rispetto al quale le sue posizioni hanno riscosso in più occasioni -- anche recentemente -- il sostegno di vari esponenti democratici e dei sindacati. Il focus sulla dimensione economica è stato evidente anche nei riferimenti alla politica fiscale dell’amministrazione, alla creazione di nuovi posti di lavoro (con un’attenzione particolare al settore manifatturiero e all’occupazione femminile) e al ritorno – in campo energetico – a una posizione di esportatore netto che gli Stati Uniti non occupavano da oltre sessant’anni.

Più delicata (e divisiva) è stata, invece, la parte sulla politica estera, nella quale il Presidente ha confermato la bontà della scelta di ritirare le truppe dal teatro siriano e annunciato l’intenzione di procedere a breve con il loro ritiro anche dall’Afghanistan, ha indicato come un successo l’uscita dal ‘nuclear deal’ con l’Iran (JCPOA - Joint Comprehensive Plan Of Action) e ha rivendicato il merito della détente raggiunta con la Corea del Nord, rispetto alla quale ha anticipato un incontro con Kim Jong-un il prossimo 27-28 febbraio. Soprattutto, il Presidente ha ribadito la scelta di proseguire nella realizzazione del ‘muro di confine’ con il Messico, muro che – ha ricordato Trump – ‘in passato è già stato votato da molte persone in questa sala, ma non è stato mai davvero costruito’.

La reazione democratica è stata prevedibilmente critica, sia nella replica ufficiale (affidata a Stacey Abrams, candidata – sconfitta di misura – al seggio governatoriale in Georgia lo scorso novembre e in predicato per un prossimo seggio senatoriale), sia in quelle informali che hanno fatto seguito al discorso. Nella sala del Congresso, tuttavia, il partito è apparso più diviso, con una parte almeno dei suoi delegati non contrari alle posizioni espresse dal Presidente, almeno su specifici punti. Al di là dei contenuti del discorso (che pure, secondo un sondaggio della CNN, è stato giudicato ‘molto positivo’ da quasi il 60% del campione intervistato), è forse questo l’aspetto più rilevante. Nonostante l’avvio della marcia di avvicinamento alle primarie, il Partito dell’asinello non sembra avere ancora ricucito lo strappo aperto due anni fa dalla rivalità fra Hillary Clinton e Bernie Sanders e che, di fronte alla sfida lanciata da Trump, sembra, anzi, essersi allargato.

Ovviamente, è difficile che l’appello all’unità lanciato dal Presidente nel suo discorso porti a risultati concreti, specie con la questione del bilancio federale ancora in sospeso. Nel voto di midterm, la corsa alla polarizzazione ha spesso pagato, sebbene le elezioni per il Congresso riflettano dimensioni locali che faticano a esprimersi in quelle presidenziali. Questa corsa, tuttavia (come ha dimostrato anche in questo caso il voto di midterm), non premia solo il Partito democratico. Non è quindi difficile prevedere, nei mesi a venire, il riaccendersi delle rivalità; una situazione che, alla luce di quelle che paiono essere le dinamiche interne al ‘nuovo’ Partito repubblicano, potrebbe portare, nel voto 2020, a risultati imprevedibili anche poco tempo fa.

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Tags

Donald Trump USA relazioni transatlantiche
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AUTORI

Gianluca Pastori
Associate Research Fellow, Relazioni Transatlantiche

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