Dopo Abu Bakr al-Baghdadi, anche il nuovo leader del cosiddetto Stato Islamico (IS), Abu Ibrahim al Hashimi al-Qurayshi, ha perso la vita in Siria nel corso di un raid, rischioso e preparato per mesi dagli Stati Uniti d’America. Le due esecuzioni mirate presentano interessanti somiglianze: in entrambi i casi un’operazione sul terreno delle forze speciali americane si sarebbe conclusa con la decisione del leader di farsi esplodere, portando via con sé la vita di alcuni familiari.
Ancora più notevole è il fatto che l’area interessata sia la medesima: il governatorato siriano di Idlib, a poca distanza dalla Turchia. Questo particolare geografico appare sorprendente perché quest’angolo della Siria, com’è noto, è sotto il controllo de facto di un governo ribelle dominato da Hayat Tahrir al-Sham (HTS), un’organizzazione già affiliata ad Al-Qaida e acerrima rivale dello stesso Stato Islamico. Appare difficile supporre che HTS e IS intrattengano clandestinamente rapporti di collaborazione né vi sono prove concrete in questo senso; peraltro, HTS è stata responsabile di numerose operazioni ai danni di cellule dello Stato Islamico attive sul territorio, anche negli ultimi mesi. Forse sia Abu Bakr al-Baghdadi sia Abu Ibrahim al Hashimi al Qurayshi, pur essendo entrambi iracheni, hanno deciso di rifugiarsi in questa zona ostile della Siria nordoccidentale semplicemente perché non era un luogo in cui ci si aspettava di trovarli.
La leadership di Abu Ibrahim al Hashimi al-Qurayshi è stata breve e lascia ampie zone d’ombra. La sua nomina venne ufficialmente annunciata il 31 ottobre 2019, pochi giorni dopo la morte di al-Baghdadi. Del nuovo leader venne presentato soltanto un nome di battaglia: un riferimento alla sua presunta appartenenza al lignaggio hascemita della storica tribù araba dei Quraish, cui apparteneva il profeta Maometto; secondo una tradizione diffusa nell’Islam i califfi (ovvero i successori del profeta) dovrebbero appartenere a tale tribù.
Dopo la nomina lo Stato Islamico non ha mai fornito altri dettagli sull’identità del suo massimo rappresentante. Curiosamente un’organizzazione sofisticata che ha fatto notoriamente della comunicazionee dellapropaganda un proprio tratto distintivo, tanto più nei suoi anni d’oro (2014-2019), è stata quindi guidata da un leader rimasto completamente nell’oscurità fino alla sua morte. Si può quindi notare che nella parabola di al-Qurayshi, ancor più che nel caso di al-Baghdadi, l’imperativo dellasegretezza, per ovvie ragioni di sicurezza, ha prevalso totalmente sull’esigenza di promuovere e pubblicizzare personalmente l’organizzazione e le sue attività verso l’esterno e anche sull’opportunità di esibire una leadership solida e legittima per miliziani e simpatizzanti. Com’è oggi evidente, tanta attenzione alla segretezza non ha comunque evitato la morte del leader per mano degli Stati Uniti; per inciso, il successo di questa operazione militare è l’ultima conferma delle crescenti capacità operative raggiunte da Washington e dei suoi alleati nel campo delle esecuzioni mirate.
Pur senza alcuna conferma ufficiale da parte dell’organizzazione, è noto che dietro il nome di battaglia di Abu Ibrahim al Hashimi al Qurayshi si celasse Amir Muhammad Sa’id Abdal Rahman al-Mawla (noto anche come Hajji Abdullah). Significativamente ancor prima che assurgesse al ruolo di “califfo”, le notizie su questo esponente di primo piano dello Stato Islamico erano assai scarse. Secondo le informazioniattualmentedisponibili, al-Mawla nacque nel 1976 in un’area a maggioranza turkmena nei pressi di Mosul, del nord dell’Iraq. Questa origine alimentò il sospetto, utilizzato tanto dai nemici esterni quanto dagli avversari interni, che egli stesso fosse di etnia turkmena e quindi, in quanto non arabo, non idoneo a ricoprire il ruolo supremo di “califfo”. Dopo la laurea in studi coranici a Mosul (cui seguì più tardi un master) e il servizio militare, il futuro “califfo” si unì alla causa jihadista in Iraq. All’inizio del 2008 fu catturato e durante la detenzione nel noto carcere di Camp Bucca avrebbe rivelato decine di nomi di compagni di lotta armata; l’accusa di tradimento è stata rilanciata dai suoi avversari dopo la nomina a “califfo”.
Rilasciato dal carcere nel 2009, al-Mawla si unì al gruppo armato che nel 2014 sarebbe diventato ufficialmente lo Stato Islamico. La sua scalata all’interno della gerarchia del gruppo armato fu rapida, favorita da spiccate doti organizzative e dalla sua formazione in campo religioso. Nella dialettica interna all’organizzazione, al-Mawla in più occasioni si sarebbe attestato su posizioni (ancora più) estreme. In particolare, è noto che egli sostenne la prospettiva radicale della riduzione in schiavitù delle donne yazide (ma comunque non delle donne cristiane), avversata da una parte della leadership stessa, soprattutto irachena. Alla fine, fu la sua tesi a ottenere l’approvazione dell’allora “califfo” al-Baghdadi e al-Mawla stesso svolse un ruolo centrale nell’attuazione della brutale campagna di violenza contro la minoranza yazida. Secondo le informazioni disponibili, almeno a partire dal 2018 sarebbe stato il vice di al-Baghdadi, che conosceva personalmente da anni.
Salito infine sino alla massima carica dello Stato Islamico nel 2019, al-Mawla/al-Qurayshi dovette affrontare la sfida di rilanciare un’organizzazione che nello spazio di alcuni mesi aveva appena perso il suo territorio in Siria e Iraq e poi il suo leader storico. Le indicazioni disponibili suggeriscono che sotto la sua guida lo Stato Islamico abbia assunto un assetto più decentralizzato. Il gruppo armato ha inoltre continuato in forma clandestina le sue attività violente in Siria e in Iraq. Peraltro, proprio pochi giorni, fa con l’assalto alla prigione di al-Hasaka e la liberazione di centinaia di prigionieri, lo Stato Islamico ha lanciato la sua sortita più rilevante da quando ha perso il suo territorio nel Levante nel 2019. Inoltre, lo Stato Islamico ha accentuato la sua proiezione transnazionale al di là dello storico baricentro dell’Iraq, mostrando un preoccupante attivismo in diverse regioni del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia, compresi il Sahel e l’Afghanistan.
Gli effetti concreti della morte di al-Qurayshi appaiono difficili da prevedere. In generale, sulla base delle ricerche e analisi disponibili, si può osservare che la decapitazione dei gruppi armati tende a produrre effetti non univoci, che dipendono dall’interazione tra le caratteristiche del leader eliminato, dell’organizzazione e del contesto. Nel caso di al-Qurayshi, da un lato, si può sostenere che la sua morte abbia rappresentato un altro pesante colpo inferto allo Stato Islamico, sia sul piano organizzativo sia sul piano simbolico. In modo non sorprendente, il presidente USA Joe Biden, reduce dal fallimento della guerra contro i Talebani, si è affrettato a sottolineare questo aspetto. Dall’altro lato, l’eliminazione del leader presumibilmente non provocherà conseguenze disastrose per lo Stato Islamico, un’organizzazione che storicamente presenta una solida componente burocratica e non si fonda sul carisma personale del capo. Negli scenari peggiori, la decapitazione potrebbe addirittura condurre, per esempio, a un incremento della violenza nel breve periodo o ipoteticamente alla nomina di un nuovo “califfo” ancora più temibile per capacità e motivazioni.
Di sicuro il processo di successione al vertice è aperto. All’orizzonte non si scorge un pretendente indiscusso. Considerando anche i precedenti storici, è lecito supporre che la nomina possa giungere già nel giro di alcuni giorni o settimane e si potrebbe valutare come probabile l’avvento di un altro leader originario dell’Iraq. In ogni caso, chiunque sarà alla fine il nuovo “califfo”, questi sarà chiamato a guidare un’organizzazione che, pur avendo ormai lasciato alle spalle il suo periodo d’oro, è ancora attiva e pericolosa.