Lo scorso 17 aprile, con un videomessaggio diffuso su un canale Telegram ben noto ai servizi di intelligence occidentali, lo Stato islamico (IS) è tornato a farsi sentire in un momento tutt’altro che casuale.
Lo ha fatto con la voce di Abu-Omar al Muhajir, il presunto nuovo portavoce del gruppo, in un messaggio lampante e intriso della retorica di odio, violenza e vendetta a cui IS, così come altre compagini jihadiste, ci avevano già abituati in passato. L’appello esorta i miliziani dell’organizzazione, oggi certamente lontana dai fasti del “Califfato” in Siria e in Iraq ma pur sempre attiva e pericolosa in diverse aree del mondo, a cavalcare l’onda della guerra in Ucraina per condurre attacchi in Europa e vendicare la sua lunga schiera di leader uccisi.
In ragione della natura stessa del fenomeno jihadista nel Vecchio Continente, è difficile prevedere se a questa operazione di propaganda possa far seguito una serie di nuovi attacchi terroristici sul suolo europeo. L’unica vera arma a disposizione dello Stato islamico in Europa è infatti costituita dalle cellule dormienti, ovvero dai cosiddetti “lupi solitari”, e dai (pochi) foreign fighters rientrati negli ultimi anni dopo aver combattuto nei ranghi dell’organizzazione, soprattutto in Iraq e in Siria.
IS colpisce in Israele
Nel videomessaggio il portavoce del gruppo jihadista ha elogiato gli attacchi terroristici sferrati a fine marzo da alcuni arabi israeliani nelle città di Hadera e Beersheba in Israele, attentati che lo Stato islamico ha prontamente rivendicato.
Il bilancio di queste azioni, avvenute sullo sfondo di crescenti tensioni politiche in Israele e ricorrenti esplosioni di violenza nei territori palestinesi, è di sei vittime (inclusi due agenti di polizia) e diversi altri feriti.
Sembra che gli attentatori, neutralizzati dalle forze di sicurezza, avessero già trascorso un periodo di detenzione nelle carceri israeliane per aver tentato di unirsi a IS, per poi essere rilasciati e sposare nuovamente la causa del jihad.
Attualmente le prigioni del paese ospitano 19 presunti membri dell’organizzazione; i più noti sono gli attentatori che hanno aperto il fuoco nel quartiere di Sarona a Tel Aviv nel giugno 2016, causando la morte di quattro persone, in uno degli ultimi attacchi riconducibili allo Stato islamico in territorio israeliano.
Nel periodo d’oro del “Califfato”, quando decine di palestinesi israeliani e della Cisgiordania provarono, con più o meno successo, ad arruolarsi nelle file di IS in Siria e in Iraq, il numero di detenuti nelle carceri israeliane arrestati per supposti legami con il gruppo era salito a 87 (l’aggressore di Beersheba era stato condannato nel 2016). Stando alle dichiarazioni di un funzionario della sicurezza di Tel Aviv, solo la metà di essi non si è resa responsabile di nuovi atti terroristici negli anni successivi.
La traiettoria di questi militanti, così come degli attentatori di Hadera e Beersheba, fornisce una riprova delle molteplici falle che continuano a caratterizzare i programmi di deradicalizzazione e di riabilitazione nelle prigioni, sia nel caso di Israele (e di altri paesi del Medio Oriente e Nord Africa) che in Europa.
Nel complesso, Israele e la questione palestinese erano sempre rimasti ai margini dell’operatività di gruppi terroristici transnazionali con un’agenda di stampo “globale” (come IS e al-Qaeda), in contrapposizione ad organizzazioni locali (come Hamas e la Jihad Islamica Palestinese), che hanno il proprio focus principale sul Paese.
Ad ogni modo, la distruzione di Israele e la liberazione di Gerusalemme sono stati costantemente al centro dell’ideologia e della propaganda di IS. Queste fanno continuo riferimento alla “cospirazione ebraico-cristiana” contro l’Islam, di cui i “sionisti” sono ritenuti un incubatore. La branca locale dello Stato islamico in Sinai (Wilayat Sinai), che ultimamente ha incrementato le proprie attività jihadiste nella penisola egiziana, supporta la strategia di IS e tenta di facilitare attacchi eversivi anche in territorio israeliano.
Quale minaccia per l’Europa?
Guardando agli attentati di matrice jihadista che hanno avuto luogo all’interno del continente europeo nel 2021, si può affermare che l’Europa continui a rimanere esposta alla minaccia di quanti si mobilitano in modo autonomo a sostegno del cosiddetto “jihad globale”.
Lo scorso anno, gli stati europei sono stati colpiti da attacchi a “bassa tecnologia” compiuti dai cosiddetti “lone wolfes”, cioè individui privi di affinità dirette con gruppi appartenenti alla galassia jihadista. Si è trattato per lo più di attivazioni spontanee che, sulla spinta della propaganda jihadista e del disagio socioeconomico, hanno preso di mira civili o agenti delle forze dell’ordine, in linea con la strategia dei vertici di IS.
Tuttavia, è bene ricordare che, nel 2021, gli attacchi sono stati non solo inferiori, ma anche meno letali rispetto al 2020. Secondo l’ultimo rapporto del Global Terrorism Index, nel 2021, in Europa, si sono verificati 3 attentati jihadisti. Si tratta del numero più basso registrato dal 2014, in calo del 75% rispetto ai 12 attacchi totali perpetrati nel 2020. Quanto alla letalità di tali attentati, nel 2021 i decessi sono stati 2, mai così pochi dal 2007 – un dato ancor più significativo se paragonato ai 15 complessivi del 2020.
In questa cornice, i Balcani occidentali potrebbero rappresentare un’area di rischio per la sicurezza europea anche a causa di possibili fenomeni emulativi da parte di estremisti islamici che vivono stabilmente all’interno delle comunità balcaniche in Europa occidentale. Non è da escludere che i Balcani occidentali si configurino così come un potenziale bacino di nuovi processi di reclutamento, tanto più se si considera la presenza di alcune centinaia di foreign fighters, originari o provenienti dalla regione, che avevano combattuto in Siria e in Iraq con IS.
È significativo che il gruppo salafita legato allo Stato islamico, conosciuto come “Leoni dei Balcani”, costituisca un elemento della strategia di IS volta a consolidare le proprie strutture periferiche per il rilancio di attività offensive nel cuore della Mitteleuropa.
L’aumento esponenziale dell’attività di propaganda jihadista all’indomani della presa di potere dei talebani in Afghanistan, sia da parte di al-Qaeda che di IS (sebbene con toni e finalità differenti), continua ad essere oggetto di un intenso monitoraggio dei servizi di sicurezza occidentali. Nel contesto attuale, in cui i social e la rete giocano un ruolo chiave nel diffondere messaggi di odio e alimentare derive estremiste di ogni tipo in bersagli già inclini a raccogliere tali segnali, il rischio è che la propaganda jihadista possa favorire il passaggio all’azione di soggetti radicalizzati anche sul suolo europeo.
In Europa permangono quindi aspetti di incertezza, connessi soprattutto a fenomeni di emulazione che potrebbero scaturire anche sulla scia di eventi internazionali in grado di spingere singoli individui a combattere in nome del jihad. Negli ultimi anni, e a seguito del picco di attentati del 2015 e 2016, l’Europa ha saputo ridurre in maniera consistente le proprie fragilità, anche se i risultati più evidenti si sono registrati più nelle operazioni di antiterrorismo che non in quelle di prevenzione e deradicalizzazione.
Attenzione a non abbassare la guardia
A livello globale e regionale, lo Stato islamico ha adottato lo stesso modello di al-Qaeda: ha cioè riorganizzato il suo assetto, decentralizzando le proprie strutture di comando e di controllo e moltiplicando i suoi fronti di azione.
Un’indicazione di questa tendenza emerge con chiarezza anche in Siria e in Iraq, dove un indebolito (ma attivo) IS sta cercando di consolidare la propria base operativa, sia attraverso assalti diretti alle carceri finalizzati alla liberazione di combattenti che militavano nei suoi ranghi (l’ultimo, il 20 Gennaio alla prigione di Ghwayaran nel nordest della Siria), sia con una vigorosa attività di proselitismo all’interno dei campi profughi come quello di Al Hol.
Quest’ultimo è solo uno dei tanti bacini di radicalizzazione e reclutamento di cui il gruppo jihadista oggi si serve per preparare le sue offensive tanto in Siria e in Iraq quanto in altri teatri di operazione. Di ritorno da una recente visita a diversi centri di detenzione siriani, lo stesso Michael Kurilla, nuovo comandante del Comando Centrale degli Stati Uniti (CENTCOM) ha parlato di una situazione incandescente, lanciando così un nuovo monito agli attori regionali e internazionali impegnati nel contrasto alla minaccia terroristica di matrice islamica.
Sulla base delle informazioni attualmente disponibili, dagli inizi di aprile il gruppo sembra anche aver intensificato i propri attacchi contro le forze del regime siriano e le sue milizie alleate, soprattutto nelle zone desertiche della Siria centrale conosciute come al-Badiya.
Alcuni osservatori hanno visto in questi sforzi dell’organizzazione un tentativo di vendicare l’uccisione dell’ex leader al-Hashimi al-Qurashi, avvenuta il 3 febbraio nel corso di un raid statunitense nel nord-est della Siria.
Inoltre, nei mesi scorsi si sarebbero riscontrati alcuni tentativi da parte di giovani libanesi provenienti da Tripoli (storico serbatoio dello Stato islamico) di rinfoltire le file del gruppo in Siria e in Iraq, trend al quale potrebbe contribuire anche la crisi economica di un Libano ormai sull’orlo del collasso. È opportuno seguire da vicino l’evoluzione della minaccia estremista di IS anche in alcune parti dell’Africa, in particolare la fascia sahelo-sahariana, il Corno d’Africa e il Mozambico, in modo da poter contrastare l’eventuale nascita di califfati o “willayat” (“province”), forieri di potenziali rischi per la sicurezza europea.
Se la nomina del nuovo califfo Abu-Hassan al-Hashimi al-Qurashi lo scorso marzo conferma la dubbia efficacia della decapitazione della leadership di gruppi jihadisti come strumento di contro-terrorismo, restano ancora incerti gli effetti e le implicazioni di tale nomina sulle strategie future dello Stato islamico in Europa e in altre aree del mondo.