Lo Yemen fra terrore e vecchia politica | ISPI
Salta al contenuto principale

Form di ricerca

  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED

  • login
  • EN
  • IT
Home
  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED
  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Digitalizzazione e Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Formazione ad hoc
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI

  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Digitalizzazione e Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Formazione ad hoc
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI
Commentary

Lo Yemen fra terrore e vecchia politica

23 settembre 2013

I tre attacchi coordinati che lo scorso venerdì sono costati la vita a cinquantasei fra poliziotti e soldati yemeniti dimostrano – qualora ce ne fosse ancora bisogno – la capacità operativa di al-Qaeda nella Penisola arabica (AQAP). E gettano ulteriori ombre sull’efficacia della pluridecennale politica di securitization degli Stati Uniti nel paese. Perché proprio ad agosto, i droni di Washington hanno colpito lo Yemen con frequenza e intensità inaudite, uccidendo, tra gli altri, un leader locale di AQAP, Qaid Ahmad Nasser al-Dhahab. L’apparente paradosso è questo: per quanti capi del terrore gli statunitensi possano eliminare a Sana’a, il ramo locale di al-Qaeda continua a reclutare miliziani. Mentre fra la popolazione – stanca di bombardamenti e delle troppe vittime civili che spesso hanno causato – il sentimento anti-americano cresce. 

Gli attentati che all’alba di venerdì scorso hanno insanguinato la regione meridionale di Shabwa – tra cui un’autobomba al campo militare di Al-Nashama e una sparatoria a Mayfaa – sono l’episodio terroristico più grave dall’attacco che, nel maggio 2012, causò la morte di una novantina di militari durante una parata nella capitale. In quell’occasione si commemorava l’unificazione dello Yemen; oggi, a tredici anni di distanza e dopo una guerra civile (nel 1994), la questione nord-sud rimane ancora un nodo da sciogliere. Il Dialogo Nazionale, incaricato di redigere una nuova costituzione, nonché di risolvere il rebus istituzionale, sta terminando i propri lavori in questi giorni, in attesa che le nove commissioni tematiche si riuniscano in sessione plenaria. Dopo sei mesi di lodevole sforzo politico, i 565 delegati non sono tuttavia riusciti ad accordarsi in merito ai tre capito-li-chiave del round negoziale: la ribellione degli huthi (i dissidenti sciiti zaiditi che controllano vasti territori nel nord, preoccupando il vicino saudita), le rivendicazioni autonomiste avanzate da al-Hiraak, il movimento meridionale che ormai inneggia alla secessione e, appunto, quale fisionomia istituzionale debba avere lo Yemen del dopo-Saleh (unitaria, federale, confederale). Il Dialogo dovrebbe quindi concludersi entro la prima decade di ottobre, con l’approvazione di una bozza finale in plenaria: i delegati meridionali propongono uno stato del sud federato con quello del nord, mentre gli omologhi settentrionali spingono per una federazione di entità regionali. Vi è inoltre il tema spinoso dello sfruttamento delle risorse naturali (petrolio, gas, zinco). Dopo un mese di boicottaggio dei lavori – per protestare contro la sovra-rappresentanza numerica del nord a discapito del sud – al-Hiraak è tornato a partecipare al tavolo delle trattative; ma sono in molti, fra gli sponsor dell’autonomia dello Yemen meridionale, a ventilare l’ipotesi di un’ulteriore conferenza nord-sud, da tenersi all’estero.

L’attacco firmato da AQAP giunge pertanto in una fase politica delicatissima. Stretta fra l’alleanza securitaria con Washington, i giochi politici interni e l’interferenza dei vicini (Arabia Saudita, Qatar, Iran) la presidenza Hadi appare sempre più vulnerabile, poiché ostaggio delle pressioni politiche più disparate. E il settore della difesa è il principale terreno di disputa: non è un caso che il target preferito dai qaedisti, abili a insinuarsi nei fronti di lotta già aperti, siano proprio le forze di sicurezza, dove le lealtà clanico-tribali s’incrociano, spesso scontrandosi, con le rivalità partitiche. Nel dicembre 2012 Hadi ha emanato, tramite decreto, una riforma militare che ha toccato gli interessi nevralgici di molti: essa ha abolito sia la Guardia repubblicana (feudo del cerchio di Saleh e un tempo guidata dal figlio Ahmad) sia la potente firqa (divisione) del generale Ali Mohsin, dissociatosi solo al culmine della rivolta anti-governativa del 2011 dall’ex presidente, per avvicinarsi agli islamisti. Il General People’s Congress (GPC), ancora presieduto da Ali Abdullah Saleh, e l’Islah, contenitore sia della Fratellanza sia dei salafiti yemeniti, governano insieme nell’esecutivo di transizione; Hadi, in costante bilico fra i due partiti, ha lasciato che il GPC mantenesse il controllo politico del Ministero della Difesa, assecondando invece l’influenza degli islamisti su quello degli Interni. Le competenze dei due dicasteri sono volutamente indefinite e perciò sovrapponibili: le politiche anti-terrorismo rientrano, per esempio, fra i compiti di entrambi. 

Tale gestione consociativa del potere ha sempre fatto parte del costume politico dello Yemen contemporaneo, anche quando l’Islah si trovava, formalmente, all’opposizione. In virtù di questa costante, gli attori politici potrebbero decidere – dinnanzi allo stallo dei negoziati – di posticipare di alcuni mesi le elezioni presidenziali, previste nel febbraio 2014; a riguardo, Islah si è già espresso a favore del rinvio, mentre il GPC per ora si oppone, forse perché l’inviato delle Nazioni Unite in Yemen, il marocchino Jamal Benomar, ha di recente ribadito che l’accordo di transizione elaborato dal Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) non impedisce a Saleh e a suo figlio Ahmad (più probabile) di candidarsi alle prossime presidenziali. D’altronde, vi sono due ingredienti politici che rendono l’evoluzione della rivolta yemenita diversa dagli altri tumulti regionali: l’uscita di scena negoziata del presidente e un’amnistia, votata dal parlamento dell’unica repubblica della Penisola arabica, che copre tutti i reati commessi da Ali Abdullah Saleh e dal suo inner circle durante i 33 anni di presidenza.

Forse, anche Washington gradirebbe il rinvio dell’appuntamento presidenziale. Perché le politiche di sicurezza statunitensi nello Yemen stanno rivelandosi, mese dopo mese, sempre più inadatte. È questo il messaggio implicito contenuto nel discorso di Barack Obama alla National Defense University lo scorso maggio, quando il presidente ha ammesso la necessità di rivedere la strategia di counter-terrorism nonché le modalità di impiego degli aerei senza pilota. E l’allerta terrorismo del mese di agosto (che ha portato alla chiusura dell’ambasciata Usa a Sana’a per diversi giorni) ha messo a nudo il livello, estremamente elevato, di percezione del rischio Yemen. Nel frattempo, le manifestazioni anti-droni si moltiplicano: solo ad agosto, alcuni membri di Ansarullah (il braccio politico degli huthi) hanno sfilato per le vie della capitale, così come gruppi di miliziani tribali si sono radunati nell’area di Mareeb, sventolando qualche bandiera nera di al-Qaeda. Fra la piaga del terrorismo e gli ingranaggi clientelari del passato, la transizione politica dello Yemen rimane un sentiero in salita. Da percorrere con un presidente a tempo, Hadi, condizionabile al punto da poter essere lasciato governare ancora per un po’.

Eleonora Ardemagni, analista in relazioni internazionali, collaboratrice di Equilibri, AffarInternazionali, Aspenia.

Ti potrebbero interessare anche:

Pakistan: crisi totale 
Economia: gli emergenti riemergono?
Big Tech: è vera crisi?
Alberto Guidi
ISPI
Big tech: stretta in corso
Africa: tour de force
Debito Usa: il tetto che scotta

Tags

Yemen terrorismo attentati Al-Qaeda penisola arabica Stati Uniti sicurezza droni Aqap huthi CCG Saleh
Versione stampabile
Download PDF

SEGUICI E RICEVI LE NOSTRE NEWS

Iscriviti alla newsletter Scopri ISPI su Telegram

Chi siamo - Lavora con noi - Analisti - Contatti - Ufficio stampa - Privacy

ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) - Palazzo Clerici (Via Clerici 5 - 20121 Milano) - P.IVA IT02141980157