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Commentary

Lo Yemen tra impasse politica ed economia al collasso

19 luglio 2011

Il 7 luglio il presidente Saleh è comparso in video per la prima volta dopo l’attentato dinamitardo subito il 3 giugno nella moschea del palazzo presidenziale e il ricovero in un ospedale militare a Riad in Arabia Saudita. Visibilmente provato per le ferite e le ustioni riportate nell’attentato, Saleh ha affermato di essere favorevole a una condivisione del potere con l’opposizione purché all’interno di una cornice costituzionale. Questa dichiarazione da parte del presidente e il suo tentativo di cooptare l’opposizione al potere hanno riportato indietro le lancette alla situazione antecedente l’attuale crisi, attraverso una tattica utilizzata negli ultimi due anni che non ha portato ad alcun risultato tangibile, se non quello di continuare a mantenere al potere Saleh stesso.

L’annuncio da parte del governo che il presidente non si dimetterà immediatamente anche in caso di raggiungimento di un accordo per il trasferimento dei poteri, ha interrotto il dialogo con l’opposizione, rendendo di fatto lettera morta il piano di transizione proposto dal Consiglio della Cooperazione del Golfo (Ccg), che prevedeva le dimissioni di Saleh entro 30 giorni dalla sua firma, la formazione di un governo di unità nazionale e nuove elezioni presidenziali. Saleh si è rifiutato di firmarlo all’ultimo istante per ben tre volte, dopo che sia l’opposizione che il partito di maggioranza avevano dato il loro assenso a tale piano.

L’attentato a Saleh ha catapultato lo Yemen in una impasse politica. Abd Raboo Mansour Hadi, il vicepresidente della repubblica e segretario generale del General People’s Congress (Gpc), il partito di maggioranza, si è trovato stretto da un lato dalle pressioni provenienti dall’opposizione, da alcuni leader tribali, dai giovani manifestanti per la democrazia e dalla comunità internazionale affinché portasse avanti il processo di transizione politica approfittando dell’assenza di Saleh, e dall’altro da quelle del gen. Ahmed Saleh e degli altri parenti del presidente che controllano gli apparati militari, di sicurezza e di intelligence del paese, pronti a difendere con la forza le proprie posizioni di potere.

Non firmando il piano di transizione del Ccg, Saleh è riuscito nell’intento di spaccare l’opposizione. I giovani che manifestano per la democrazia hanno infatti preso la distanze dal Joint Meeting Party (Jmp), l’eterogeneo blocco dell’opposizione che include sei partiti di varia ispirazione ideologica, per aver accettato la clausola del piano di transizione che prevedeva l’impunità per Saleh e i suoi collaboratori, lamentando inoltre i tentativi anche violenti da parte del partito islamico Islah, il più importante dei partiti del Jmp, di controllare e condizionare i manifestanti. Dopo l’attentato a Saleh essi hanno chiesto la formazione di un consiglio di transizione, composto solo da tecnocrati e l’uscita di scena dei figli e parenti di Saleh. Da parte sua, il Jmp non riuscendo a convincere il governo a far trasferire i poteri al vicepresidente Hadi, e probabilmente nel tentativo di riavvicinarsi ai giovani manifestanti ha recentemente minacciato la creazione di un consiglio di transizione unilaterale che sostituisca l’attuale governo. L’opposizione ha infatti denunciato come la partenza forzata di Saleh e di molti altri funzionari di stato rimasti feriti nell’attentato del 3 giugno abbia finito col lasciare sostanzialmente il potere nelle mani di chi non è costituzionalmente legittimato a guidare il paese, come i figli di Saleh, denunciando come l’unità del paese sia a rischio a causa dell’incapacità da parte del governo di adempiere alle proprie funzioni.

Tuttavia la prospettiva di un consiglio unilaterale sembra non trovare d’accordo alcuni partiti all’interno del Jmp che ritengono che una coalizione non rappresentativa di tutte le fazioni nello Yemen rischierebbe di essere non credibile agli occhi della comunità internazionale e di causare ulteriori tensioni nella sempre più agitata scena politica del paese. Infatti approfittando della progressiva instabilità e del vuoto di potere creatosi nel paese, gruppi di miliziani composti da un insieme non ben precisato di islamisti, ex jihadisti e qaedisti, raggruppati sotto la nuova sigla di Ansar al-Sharia, hanno occupato gran parte della provincia di Abyan, tra cui il capoluogo Zinjibar, provocando un’ondata di rifugiati che secondo le ultime stime ammonterebbe a 70.000 persone. L’opposizione ha accusato il regime di Saleh di avere deliberatamente permesso agli islamisti di occupare Zinjibar per dimostrare alle potenze occidentali e ai paesi del Golfo che lo sostengono economicamente, i rischi che ne deriverebbero per la sicurezza regionale e internazionale nel caso egli dovesse perdere il potere.

A ogni modo gli aspetti che destano maggiore preoccupazione sono il crollo dell’economia e la conseguente crisi umanitaria derivanti dal protrarsi da oltre cinque mesi della crisi politica e degli scontri armati. In un paese che già figurava negli ultimi posti della classifica dell’Indice di sviluppo umano con una disoccupazione al 40%, il 45% della popolazione con un reddito sotto la soglia di povertà (meno di $2 al giorno) e la più grave crisi idrica tra i paesi del Medio Oriente, si stima che l’attuale crisi sia costata già oltre $4 miliardi. In particolare i continui sabotaggi avvenuti all’oleodotto che conduce il greggio alla raffineria di Aden e alla centrale elettrica a Marib che rifornisce circa 2/3 del paese hanno dato avvio a una crisi energetica dagli effetti concatenati. Se si tiene conto che nello Yemen gran parte dell’acqua viene estratta dai pozzi con pompe alimentate a gasolio e distribuita su camion cisterna, la mancanza di carburanti ha aggravato ulteriormente la crisi idrica. La scarsa erogazione dell’energia elettrica assieme all’arresto forzato di gran parte dei veicoli a motore hanno di fatto portato alla paralisi produttiva del paese e alla mancata erogazione dei già scarsi servizi sociali e sanitari da parte dello stato. Tutto questo si è tradotto in un’impennata della disoccupazione, dei prezzi dei beni di prima necessità e dell’inflazione in generale conducendo lo Yemen a una economia dipendente dal mercato nero. A tal proposito l’Alto commissariato per i Diritti umani della Nazioni Unite ha affermato come la lotta di potere nello Yemen non debba trasformarsi in una “punizione collettiva” nei confronti della popolazione, chiedendo l’invio urgente di aiuti internazionali per far fronte alla crisi umanitaria.

L’interruzione dell’invio del greggio alle raffinerie di Aden e la necessità da parte dello Yemen di dovere importare completamente il carburante rappresentano un fardello enorme sulle precarie finanze dello stato le cui entrate dipendono al 70% dal petrolio. Il permanere di tale situazione potrebbe avere delle ripercussioni sugli scenari futuri dello Yemen che vanno al di là della stessa volontà degli attori politici di questa crisi, se essi non agiranno in fretta per risolverla. In particolare per Saleh un’ulteriore dilatazione temporale dell’attuale crisi economica rischia di minare ancor di più le sempre minori risorse che egli ha a disposizione per mantenere il sistema clientelare grazie al quale è riuscito a rimanere al potere per 33 anni. Infatti se lo stato si trovasse nella condizione di dover sospendere i pagamenti dei salari ai militari e alle forze di sicurezza a lui fedeli, il rischio di una loro defezione a favore dell’opposizione sarebbe molto probabile. Se, come affermato dal professore Saleh Samea dell’Università di Sanaa, l’ultimo stipendio ai militari è stato pagato facendo ricorso a un prestito ricevuto da un paese confinante, questa prospettiva appare tutt’altro che remota.

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