Che c’entra lo “sviluppo” con l’OCSE, considerata, almeno sino a pochi anni fa, il “Club dei Paesi Ricchi”? In realtà, lo sviluppo è persino nel nome dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), ma le sue sorti variano nel corso dei 60 anni di storia dell’organizzazione. Per descrivere queste sorti distinguerò tre fasi: la nascita dell’OCSE, un periodo di istituzionalizzazione e di incontro “mancato” con i paesi del Sud, infine, il “ritorno” dello sviluppo, di fronte ad una trasformazione epocale dell’economia mondiale.
La nascita
Il Piano Marshall ha giocato un ruolo importante nelle dinamiche del multilateralismo. Si pensava allora che la rapida ricostruzione dell’Europa occidentale fosse dovuta al matrimonio tra aiuti e cooperazione economica internazionale. Aiuti e cooperazione furono discussi allo Chateau de la Muette, attuale sede dell’OCSE ed erede dell’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea (OECE). Il metodo di lavoro adottato era originale: più che di un’amministrazione, si trattava di reti di funzionari pubblici che discutevano le iniziative in una ventina di comitati, i cui membri erano dotati della stessa “voce” e le decisioni erano adottate all’unanimità. I comitati si riunivano regolarmente per condividere esperienze e costruire fiducia tra i paesi membri. Due stili si affiancarono sin dall’inizio: un discorso interpretativo di comprensione condivisa dei fenomeni economici e sociali e dell’efficacia delle politiche pubbliche; e un discorso normativo di definizione di standard e prescrizioni in materia di politica pubblica.
Il Piano Marshall diede allo stesso tempo impulso alle idee della cosiddetta economia dello sviluppo, un approccio che nacque dall’incontro tra intuizioni relative ai problemi sui generis dei paesi meno sviluppati ed il desiderio di ottenere rapidi progressi in tema di prosperità. In coerenza, più o meno conscia, con quelle idee, si pensò innanzitutto che l’OCSE potesse contribuire all’estensione degli scambi internazionali e, per questo tramite, facilitare lo sviluppo. Certo, c’era chi si chiedeva come mai paesi integrati nelle reti del commercio internazionale restassero poveri, o addirittura si fossero impoveriti; ma queste voci non ebbero grande ascolto. Inoltre, si ritenne che l’OCSE potesse promuovere l’erogazione di aiuti ai paesi incapaci di generare internamente i volumi di spesa necessari alla propria crescita. Si costituì così il cosiddetto Gruppo di Assistenza allo Sviluppo (divenuto in seguito il Comitato di Assistenza allo Sviluppo - CAS) con un discorso piuttosto normativo. Infine, si considerò l’OCSE come un luogo dove poter comparare le esperienze di paesi, sviluppati e non, in tema di strategie pubbliche. Nel clima della guerra fredda, vi era chi intendeva disseminare le “Best Practices” occidentali con fini prossimi alla propaganda, ma vi era anche chi credeva sinceramente al dialogo con gli Altri. In un caso come nell’altro era necessario disporre di un “tavolo” inclusivo e John Fitzgerald Kennedy propose nel 1961, la creazione di un Centro di Sviluppo di cui avrebbero dovuto far parte paesi OCSE e non, ma tutti con la stessa voce, tutti con lo stesso status di “Membri”. Il discorso del Centro aveva accenti più interpretativi.
Istituzionalizzazione ed irrigidimento
Cosa ha comportato per i paesi in via di sviluppo questo nuovo approccio al multilateralismo? Hanno avuto modo di sedere ai tavoli di discussione? La decolonizzazione giocava in favore della loro inclusione e partecipazione ai processi di decision-making. In fin dei conti, le Nazioni Unite erano passate dai 51 membri fondatori a più’ di un centinaio nel 1961, anno in cui l’OCSE fu fondata, e la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) fu creata nel 1964 proprio allo scopo di integrare i paesi in sviluppo nell’economia mondiale. Tuttavia, l’OCSE non solo non invitò i paesi in via di sviluppo a partecipare ai processi decisionali, ma a lungo nemmeno li incluse. Bisognerà attendere la metà degli anni ‘90 per vedere il Messico e poi la Corea del Sud entrare a farne parte. [Grafico 1]. Ma allora, perché costituire un club di Paesi da cui fosse esclusa la voce delle “periferie” e allo stesso tempo tentare di gestire accordi di portata globale come l’Accordo Multilaterale sugli Investimenti? Non è forse questo il luogo adatto ad entrare nel merito delle ragioni politiche che presiedettero alla “chiusura” dell’OCSE, ma può essere utile soffermarsi sulla visione economica che la accompagnò.
In questa visione lo sviluppo finì per essere concepito come l’evoluzione di paesi in “ritardo” su di un sentiero unico, tracciato all’origine dai paesi OCSE. Si riteneva che i “ritardatari” fossero impacciati da ostacoli interni, di cui erano i soli responsabili, e di cui dovevano liberarsi al più presto. Comunque, i ritardatari potevano beneficiare del commercio, delle raccomandazioni e degli aiuti finanziari dei paesi avanzati per crescere e aiutare le proprie popolazioni a superare la soglia di povertà estrema. Fatto ciò, i meccanismi di mercato avrebbero mantenuto stabilmente la popolazione fuori pericolo, cioè fuori dalla povertà estrema. Lo "sviluppo” si trasformò in sinonimo di “crescita economica”. La "cooperazione” divenne sinonimo di “assistenza”, monitorata dal CAS, ed allo stesso tempo di sostegno alla “regolazioneper ilbuon funzionamento dei mercati” con una ben nota enfasi sulla rimozione delle “restrizioni” alle imprese (red tapes ed imposte), privatizzazione, e promozione del commercio e degli investimenti esteri, considerati il principale motore della crescita.
Nell’ambito di questa visione, il dialogo tra paesi donatori e paesi destinatari non era sempre indispensabile. Mentre i singoli progetti richiedevano la collaborazione sul campo tra attori del Nord e del Sud, si riteneva che le politiche di assistenza dovessero essere disegnate e valutate solo tra donatori, per accordarsi ad esempio sulle spese classificabili come aiuti ufficiali allo sviluppo. Erano da considerare ammissibili le spese condizionate all’acquisto di beni del paese donatore? I crediti all’esportazione erano effettivamente “aiuti”? E l’assistenza militare? I membri del CAS erano pochi, e pochi di più quelli del Centro di Sviluppo. In ogni caso, la membership di quest’ultimo sarebbe evoluta nel tempo, mentre i cambiamenti nella composizione del CAS sarebbero stati ben più’ limitati.
"La Grande Trasformazione"
A partire dalla fine del secolo scorso, l’OCSE non poté più’ ignorare le potenti trasformazioni nel Sud, che si sommarono alle conseguenze della decolonizzazione e a quelle della caduta della cortina di ferro nel trasformare la geografia mondiale. Più di 80 paesi non-OCSE registrarono una crescita spettacolare, più del doppio di quella dei paesi OCSE. Attorno al 2010, il PIL prodotto dai paesi non-OCSE ha superato quello dei paesi OCSE, a parità di potere d’acquisto. La Cina è divenuta il primo paese partner commerciale dell’Africa, dell’Asia emergente e di diversi paesi latino americani. Tutto ciò si è tradotto, tra l’altro, in una straordinaria riduzione della povertà estrema (da 1.9 miliardi nel 1990 a 735 milioni nel 2015), nella formazione di una cospicua “nuova classe media” e nella rilocalizzazione, verso i paesi emergenti, delle manifatture, di parte delle riserve monetarie e degli assets finanziari. Sia la struttura che le “lenti” dell’OCSE sono cambiate. Almeno in parte.
La questione dell’apertura a nuovi membri è apparsa inevitabile. Dopo il Messico e la Corea del Sud, diversi paesi dell’Est sono entrati a far parte dell’organizzazione, che si proponeva di accompagnarli nell’adozione di riforme di mercato. Più di recente, l’OCSE ha invitato Israele ed alcuni paesi latino americani a entrare, dopo importanti modifiche alle loro legislazioni ed agende politiche. L’OCSE, inoltre, si è prodigata a diffondere i propri standard indipendentemente dall’adesione all’organizzazione, attraverso programmi regionali e "di paese”, composti da "prodotti tipici" OCSE (reviews, adesioni a convenzioni, etc.). Se a ciò si somma lo sforzo nei confronti del G20 e dei cosiddetti Key Partners – i paesi BRICS più l’Indonesia – è facile capire che l’intento dell’OCSE è di trasformarsi in un organismo globale. Nei fatti, ciò ha rafforzato il discorso normativo dell’organizzazione, in parte a discapito del suo discorso interpretativo. L’apertura o meno a nuovi paesi continua ad alimentare discussioni accese e questioni di legittimità degli standard dell’organizzazione.
Il Centro di sviluppo è stato ancora più solerte ad aprirsi a nuovi membri, riconoscendo per primo quanto stava accadendo nel mondo e promuovendo la voce dei paesi non-OCSE. Il cambiamento è stato evidente: dai 25 membri del 2005, meno di quelli dell’OCSE, il Centro è passato ai più di 50 membri attuali, fra cui il Sudafrica, l’Argentina, il Brasile, la Cina, l’India, l’Indonesia. Il Centro ha cercato peraltro di mantenere un’equilibrata distribuzione geografica: conta 14 paesi latino-americani, 11 africani, 8 asiatici, 21 europei, più la Turchia e Israele. L’obiettivo dichiarato non è l’universalità, dato che l’alto numero di partecipanti renderebbe complicato un dialogo tecnico, quanto piuttosto la rappresentatività. Il Club del Sahel e dell’Africa dell’Ovest ha seguito una prospettiva simile integrando, nel 2011, due delle principali organizzazioni regionali dell’Africa Occidentale.
Al contrario, il CAS si è aperto solo marginalmente, restando un club di donatori ricchi. I 29 paesi CAS non includono 7 paesi (Messico, Cile, Colombia, Israele, Turchia, Estonia, Lettonia e Lituania) che pure sono membri dell’OCSE. Le sue competenze restano circoscritte all’assistenza, e non alle questioni domestiche dei paesi in via di sviluppo. Ciò detto, il comitato ha dovuto confrontarsi con ciò’ che ha definito come ‘emerging donors’ e ha dichiarato di voler invitare il Brasile, la Cina e l’India a costituire una “Global Partnership for Effective Development Cooperation”. Ben presto, tuttavia, i paesi emergenti hanno deciso di ritirarsi, non volendo essere identificati con i donatori tradizionali, e rivendicando la loro prossimità ai paesi in via di sviluppo. Mary Robinson, presidente dell’High Level Panel sul CAS, ne ha desunto la necessità di un aggiornamento, ha concluso che la distinzione tra “donatori” e “beneficiari” ha perso molto del suo senso originario, deve essere sostituita da una “partnership among equals”, e ha invitato il CAS a lavorare in stretta collaborazione con il Centro di Sviluppo. Questa condivisibile raccomandazione tarda però ad essere messa in atto.
Parallelamente, un dibattito si è articolato attorno alla visione dello sviluppo. Val la pena menzionare tre dei vari temi discussi.
In primo luogo, la congettura sull’esistenza di un unico sentiero di sviluppo ha perso vigore. Non dovrebbe sorprendere: non mancano casi di paesi emergenti cresciuti in modo spettacolare ma non “ortodosso”, ed anzi tenendo conto dell’asimmetria delle proprie strutture produttive rispetto a quelle dei paesi già sviluppati. Né mancano casi di paesi “diligenti” che non hanno tratto alcun beneficio significativo dalle raccomandazioni “ortodosse”. Senza contare che in molti casi gli stessi paesi OCSE hanno seguito, in passato, pratiche diverse da quelle che predicano nel presente come prerequisiti indispensabili per lo sviluppo. Quindi, perché promuovere gli standard dei paesi ´avanzati´ come una condizione necessaria e sufficiente allo sviluppo? Sembrerebbe molto più utile che l’organizzazione offrisse uno spazio inclusivo dove discutere in dettaglio i singoli sentieri di sviluppo e le forme di cooperazione internazionale per accompagnarli. Si tratterebbe di rinvigorire il discorso interpretativo dell’OCSE rispetto a quello normativo, si tratterebbe anche di riconoscere la specificità dei paesi in via di sviluppo anziché considerarli destinatari di standard alla cui definizione non hanno partecipato. Ma il dibattito in proposito è tuttora in corso, e per ora la logica degli standard appare ancora dominante.
Un secondo dibattito riguarda gli obiettivi. Gli SDGs (Sustainable Development Goals) rinviano all’idea che la crescita economica e lo sviluppo, per quanto connessi, non siano sinonimi. Le diseguaglianze hanno raggiunto livelli insopportabili e la povertà estrema ha ripreso ad aumentare, indipendentemente dai tassi di crescita. Una serie di “trappole" permangano ed alimentano circoli viziosi che deludono le aspettative dei cittadini e provocano un senso di frustrazione e malessere sociale, sempre più visibile per le strade. Le nuove classi medie esprimono una domanda a cui lo stato dà risposte parziali. Ciò genera sfiducia verso le istituzioni, che hanno ancora più difficoltà a riscuotere imposte, in genere già limitate. Il minor reddito fiscale limita ancora di più la capacità statale di finanziare investimenti e servizi, e le nuove classi medie sono ancora più sfiduciate. Così il processo riparte, con il rischio che si avviti sempre più in negativo. Trappole simili riproducono nel tempo la vulnerabilità sociale di chi lavora nel settore informale, con redditi instabili e senza alcuna protezione sociale, così come la bassa produttività che rimane bloccata dalla specializzazione ed anche dipendenza delle economie da commodities con basso livello di sofisticazione.
Il punto è che le politiche pubbliche e la cooperazione internazionale sono indispensabili a scardinare le trappole dello sviluppo, giacche’ i meccanismi di mercato possono invece rafforzarle. Ma mentre in passato si è pensato che i trasferimenti finanziari generati dall’assistenza allo sviluppo fossero l’essenziale, oggi l’accento è anche sulle capacità in tema di politiche pubbliche. Le relazioni Nord-Sud o Sud-Sud possono offrire un contributo determinante attraverso qualcosa di simile a quanto fece l’OCSE per i suoi membri. Allora come oggi servono dialoghi di politica pubblica dove i diversi paesi comparino le proprie strategie e dove discutano tra pari le misure ad impatto nazionale o globale in tema di commercio, migrazione, ambiente, etc. Si tratta dell’espressione di un rinnovato multilateralismo che non pretenda di disseminare standard ed influenzare i paesi in via di sviluppo, quanto piuttosto di costruire un’articolata sperimentazione di politiche pubbliche ed un learning by doing and monitoring tra pari.
Un terzo dibattito, legato al precedente, concerne le misure dello sviluppo. Enrico Giovannini e Martine Durand, che hanno ricoperto l’incarico di capo-statistico dell’OCSE, hanno promosso e realizzato indicatori di benessere ben più appropriati del PIL per valutare le condizioni di sviluppo di un paese. Per quanto il loro lavoro abbia valore generale, esso acquista un significato particolare nel settore dell’assistenza allo sviluppo. Infatti, gran parte dei criteri adottati per distribuire gli aiuti si basa su calcoli relativi al PIL, e più precisamente al RNL. I paesi che si “graduano”, che cioè’ superano un certo livello di PIL-RNL, perdono l’accesso ad una parte o all’insieme degli aiuti, oltre che a una serie di altri vantaggi connessi. Ora, l’esistenza di trappole allo sviluppo o di sfide come quelle ambientali, che continuano intervenire anche ad alti livelli di reddito, invita a riconsiderare le misure dello sviluppo ed i meccanismi di graduazione che ne conseguono. L’obiezione secondo la quale le alternative al PIL sarebbero impraticabili sembra contraddetta dalla copertura geografica sempre più vasta degli indicatori di benessere dell’OCSE.
Conclusioni
La storia del rapporto tra l’OCSE e lo sviluppo è legata ad alcuni cambiamenti epocali ed è probabile che la pandemia di Covid-19 si aggiunga alla lista. Tali cambiamenti hanno evidenziato la necessità di dare voce ai paesi del Sud, e rimesso al centro del discorso diversi altri temi attinenti allo sviluppo. Due punti restano da menzionare.
In primo luogo, un aggiornamento delle relazioni internazionali con i paesi non-OCSE pare necessario: è ciò che l’OCSE discute sotto il nome di “sviluppo in transizione”. Tutto cambia: vi sono nuovi attori, alcuni con un peso molto rilevante; nuovi obiettivi, come testimoniano gli SDGs; nuove misure, perché il PIL è una metonimia inappropriata dello sviluppo; nuove modalità, che dovrebbero evolvere dalla cooperazione bilaterale a quella multilaterale per facilitare l’apprendimento mutuale. In questo contesto, l’OCSE può decidere o meno di partecipare a rifondare il multilateralismo. Da una parte, potrebbe ritornare ad identificarsi con i paesi ricchi e le politiche di assistenza. Dall’altra, potrebbe aprirsi ancora di più ai paesi emergenti ed estendere il gruppo di paesi da considerare come "pari”. Ma potrebbe anche decidere di restare plurale: nel qual caso, le proprie istituzioni interne si dovrebbero, da un lato, specializzare, a partire dalle vocazioni di ciascuna di esse, e dall’altro dovrebbero lavorare in più stretta cooperazione e in cluster. Come suggerito da Mary Robinson, il CAS potrebbe allora cooperare col Centro di Sviluppo ed il Club del Sahel e dell’Africa Occidentale per dialogare con i paesi non-OCSE, e questi ultimi potrebbero discutere tramite il DAC con i donatori tradizionali. Si vedrà.
In secondo luogo, i paesi OCSE dovrebbero apprendere dal dibattito sullo sviluppo e, in un certo senso, considerarsi essi stessi “in sviluppo”. Ci si è troppo spesso adagiati sull’idea di fine della storia. Si è pensato cioè che le visioni strategiche e di lungo periodo fossero dei perditempo di fronte ad un mondo omologato e piatto. In questo mondo, l’OCSE doveva limitarsi ad incrementi marginali delle politiche settoriali nazionali già esistenti. Al contrario, il dibattito sullo sviluppo ha avuto il pregio di ricordare che una buona amministrazione, per quanto necessaria, non è sufficiente a risolvere, per esempio, le trappole strutturali che persistono, le insopportabili ineguaglianze tra persone e luoghi, gli squilibri esogeni che limitano i margini di manovra nazionali, i look-in tecnologici. Fortunatamente, alcune lodevoli iniziative hanno ripreso gli interrogativi dell’economia dello sviluppo per applicarli agli stessi paesi OCSE, con risultati significativi in tema di strumenti concettuali e proposte politiche. Ad esempio, meritevole di attenzione è stato il lavoro di Fabrizio Barca come presidente del Comitato delle Politiche Territoriali dell’OCSE nei suoi primi otto anni di vita, e i lavori odierni sull’inclusive growth. Da seguire.