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Austin a Kabul

L’offensiva diplomatica di Biden in Afghanistan

Giuliano Battiston
23 marzo 2021

Con una visita non annunciata, il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd J. Austin, domenica 21 marzo si è recato a Kabul, dove ha incontrato il presidente afghano, Ashraf Ghani, e i militari statunitensi. L’obiettivo è “ascoltare e imparare”, raccogliendo ulteriori elementi per ridefinire la politica statunitense in Afghanistan, a meno di 6 settimane da una data cruciale, intorno alla quale si decidono le intenzioni strategiche degli Usa nella regione: tirarsi fuori definitivamente dal fronte afghano o decidere che una riduzione ulteriore delle truppe, oggi 2.500, leda gli interessi di sicurezza nazionale statunitensi, prolungandone la presenza.

Secondo l’accordo bilaterale firmato a Doha nel febbraio 2020 tra i Talebani e l’inviato speciale Zalmay Khalilzad, scelto dall’ex presidente Donald Trump e confermato da Joe Biden, tutte le truppe statunitensi vanno ritirate entro la fine di aprile 2021. La revisione del dossier-afghano è ancora in corso e il rispetto o meno della data concordata con il numero due del movimento talebano e capo dell’Ufficio politico a Doha, mullah Abdul Ghani Baradar, “spetta al mio boss”, ha ribadito Austin nella visita di Kabul. Una visita che rientra nella più ampia offensiva diplomatica lanciata a inizio marzo.

 

Le opzioni di Biden e l’offensiva diplomatica

Il presidente Joe Biden non ha ancora annunciato la posizione della sua amministrazione. Per ora, ha dichiarato Austin a Kabul, “teniamo aperte quante opzioni possiamo”. Le opzioni disponibili sono però ridotte, i margini di manovra stretti. Due le ipotesi, opposte, che sembrano prevalere: quella di un posticipo – forse di 6 mesi – del ritiro, come raccomandato a inizio febbraio dall’Afghanistan Study Group, un panel bipartisan creato dal Congresso Usa nel dicembre 2019. E quella del rispetto degli accordi di Doha, che i Talebani continuano a ritenere, perlomeno in pubblico, l’unica strada possibile per una soluzione diplomatica al conflitto. Ma il ritiro nei tempi stabiliti, anche se possibile, “è molto difficile”, ha spiegato lo stesso Biden, per il quale le truppe non rimarranno comunque sul terreno “troppo più a lungo”.

Incerto su come sciogliere il nodo dei tempi del ritiro, Biden ha deciso di esplorare una nuova opzione diplomatica, che passa per un’accelerazione del processo di pace. Il dialogo intra-afghano – tra i Talebani e i rappresentanti del composito “fronte repubblicano” - è iniziato il 12 settembre 2020, 6 mesi dopo rispetto a quanto previsto, e ha prodotto un accordo di 3 pagine sulle procedure da seguire nel negoziato vero e proprio. Troppo poco per consentire il disimpegno delle truppe, ritengono a Washington. Così, nelle ultime settimane l’amministrazione Biden ha cercato di forzare la mano, convinta che sia possibile ridurre i tempi, fisiologicamente più lunghi, per un accordo che metta fine a un conflitto ventennale.

 

Il piano Usa per la pace in Afghanistan

La nuova roadmap di Biden per l’Afghanistan è pervenuta agli interlocutori afghani tramite l’inviato speciale Zalmay Khalilzad e il segretario di Stato, Antony Blinken. Il primo ha girato ai Talebani e al presidente Ashraf Ghani una bozza di accordo di pace che prevede la nascita di un governo a interim, al cui interno siedano anche i Talebani. La proposta non convince del tutto gli studenti coranici, perché mantiene in piedi almeno per un certo periodo il sistema istituzionale della Repubblica islamica, contro il quale hanno combattuto anni. E convince ancora meno il presidente Ghani, per il quale va garantita la continuità istituzionale e il passaggio di potere attraverso le elezioni. E che, secondo le ultime rivelazioni, potrebbe portare sul tavolo una contro-proposta: elezioni entro 6 mesi, se i Talebani accettano una tregua. Ma il tempo stringe, insistono a Washington.

Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha inviato a Ghani e ad Abdullah Abdullah, il rivale politico di Ghani che guida l’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, una lettera “dai toni urgenti”, riservata ma rivelata dal canale afghano di informazione Tolonews. Nella lettera si fa riferimento alla necessità che Talebani e Kabul tornino al più presto al tavolo negoziale e trovino un’intesa per un governo a interim e per un cessate il fuoco comprensivo. Gli Stati Uniti, scrive Blinken, si impegnano per l’organizzazione di una conferenza, sotto l’egida dell’Onu, con la partecipazione dei principali attori dell’area, Russia, Cina, Pakistan, Iran, India e gli stessi Stati Uniti. Dovrebbe garantire la convergenza degli interessi regionali per una soluzione diplomatica. Un obiettivo semplice a dirsi più che a farsi, considerate vecchie e nuove tensioni. Pochi giorni fa, Islamabad ha scritto ufficialmente a Washington, obiettando sulla presenza di  New Delhi perché – si dicono sicuri a Islamabad - è uno “spoiler” del conflitto.

Tra gli altri punti dell’agenda redatta da Blinken c’è una conferenza in Turchia, che il governo turco ha già confermato e che si terrà probabilmente ad aprile. Nei piani degli Usa, sarà l’occasione per far siglare ai Talebani e ai rappresentanti del fronte repubblicano un accordo di pace, o un patto di non belligeranza che gli assomigli molto.

 

Riduzione della violenza e 90 giorni di tregua

“Ridurre la violenza per ottenere risultati diplomatici” è quanto auspicato anche da Austin nel corso della sua visita in Afghanistan. Il livello di violenza nel paese, ha dichiarato, “è ovviamente troppo alto”, come confermano i dati raccolti nell’ultimo rapporto di Unama, la missione dell’Onu a Kabul. Nella lettera indirizzata a Ghani e Abdullah, il segretario di Stato Usa fa riferimento a “una nuova proposta per un periodo di 90 giorni di riduzione della violenza, così da impedire l’offensiva di primavera dei Talebani”, facendo coincidere quei giorni “con il nostro sforzo diplomatico per sostenere un accordo politico tra le parti”. 

I Talebani finora hanno aderito soltanto a periodi limitati di tregua, come i sette giorni immediatamente precedenti la firma dell’accordo di Doha del febbraio 2020 e come le due tregue di 3 giorni sollecitate dal presidente Ghani. Preferiscono mantenere le mani libere e poter usare la leva militare, la stessa che ha consentito loro di sedersi al tavolo negoziale. Considerano la tregua un tema sul quale negoziare, non una premessa al negoziato. Ma potrebbero arrivare apertura inattese: secondo quanto riferito dal portavoce del movimento, Mohammad Naeem, sarebbero stati proprio i Talebani, già nel dicembre 2020, a proporre una riduzione della violenza di tre mesi. Non un vero e proprio cessate il fuoco, ma una cornice temporale per “creare un’atmosfera favorevole” al negoziato. 

 

L’incontro di Mosca del 18 marzo

Invocato da Blinken nella sua lettera, il no al lancio dell’offensiva militare di primavera dei Talebani è arrivato anche dai governi della cosiddetta “Troika estesa” - Usa, Cina, Pakistan, Russia –, riuniti il 18 marzo a Mosca. All’incontro ha partecipato anche l’inviato Usa Zalmay Khalilzad, a suo agio nonostante la crisi diplomatica tra Usa e Russia, oltre che i rappresentanti del governo di Kabul e la delegazione talebana guidata da mullah Baradar. Nel comunicato finale, la Troika estesa si è dichiarata contraria alla restaurazione dell’Emirato islamico d’Afghanistan, nome con cui negli anni Novanta era noto il regime dei Talebani. Un gesto di sostegno alle istituzioni repubblicane e al governo di Kabul, in posizione di debolezza al tavolo negoziale, ma anche un segnale della preoccupazione verso le mire dei Talebani, le cui posizioni nessuno sa ancora dire con certezza quanto e come siano cambiate, al di là delle rassicurazioni e delle dichiarazioni ufficiali.

A dispetto della stoccata sull’Emirato, gli studenti coranici escono galvanizzati dall’incontro di Mosca. Per loro, è un ulteriore vetrina internazionale, l’ennesima patente di legittimità conferitagli dalla comunità internazionale. Possono tornare al potere, anche se condiviso. Si è detto favorevole a un governo a interim anche l’ex presidente Hamid Karzai, così come la maggior parte degli attori politici afghani della delegazione di Mosca. Ne faceva parte solo una donna, l’ex governatrice della provincia di Bamiyan, Habiba Sarabi, che ha lamentato il forte squilibrio di genere e la mancata inclusività nelle discussioni che dovrebbero condurre alla pace, così come ha fatto l’Afghanistan Independent Human Rights Commission.

 

Pochi pregi, molti difetti: il nuovo piano dell’amministrazione Biden

La visita di Austin a Kabul rientra dunque in questa più ampia offensiva diplomatica dell’amministrazione Biden. Tra le novità positive, l’insistenza sulla tregua prolungata e il tentativo di tenere insieme i 4 punti dell’accordo di Doha, recuperando quel “pacchetto inclusivo” che l’inviato Khalilzad, incalzato da Trump, aveva prima rivendicato e poi archiviato. Sacrificando il negoziato di pace e la tregua in favore del ritiro delle truppe e dell’impegno – ancora non verificato - dei Talebani sul controterrorismo.

Ma il nuovo piano-Biden mostra più difetti che pregi. E rischia di esacerbare i problemi che pretende di risolvere. Il deficit maggiore è lo scarto tra l’urgenza dell’amministrazione Usa di tirare le somme e i tempi prolungati necessari per concludere politicamente un conflitto durato venti anni. Prematura appare anche la fiducia nel consenso regionale, come troppo brusca la forzatura sulla riforma del quadro politico-istituzionale da cui far nascere il nuovo Afghanistan, calibrata sul calendario statunitense più che sulle esigenze e necessità afghane.

Così, la “fine responsabile del conflitto” invocata domenica 21 marzo dal segretario alla Difesa Usa nella sua visita a Kabul potrebbe coincidere con un passaggio di mano nei prossimi mesi: il dossier afghano potrebbe essere lasciato in eredità alle Nazioni Unite. Pochi giorni fa il segretario generale dell’Onu ha nominato suo rappresentante personale per l’Afghanistan Jean Arnault, un diplomatico francese di lungo corso, già rappresentante speciale dell’Onu in Colombia tra il 2015 e il 2018. A lui potrebbe spettare il compito di chiudere la partita diplomatica una volta completato il ritiro delle truppe, o raccogliere i detriti di un accordo di pace saltato perché chiuso troppo in fretta.

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Afghanistan USA Asia
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AUTORI

Giuliano Battiston
Giornalista freelance

Image credits (CC BY 2.0): U.S. Secretary of Defense

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