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Elezioni in Tunisia
L’ombra del terrorismo sulla fragile democrazia tunisina
Federica Zoja
13 settembre 2019

Sono oltre 1500 i prigionieri detenuti nelle carceri tunisine con l'accusa di fare parte di organizzazioni terroristiche islamiche, mentre supera il migliaio il numero dei combattenti radicali rientrati nel paese nordafricano dopo aver partecipato, fra le file del sedicente Stato islamico (Is) o di altre reti integraliste, ai conflitti mediorientali.

Un quadro a tinte fosche – reso pubblico dal Comitato nazionale per l'antiterrorismo – che potrebbe peggiorare ulteriormente se altri foreign fighters decidessero di tornare a casa: si calcola che siano partiti volontariamente per i fronti siriano e iracheno almeno 5mila tunisini, ma la cifra corretta potrebbe addirittura raggiungere quota 8mila. Uomini e donne che hanno partecipato a vario titolo e con ruoli diversi alla edificazione della Dawla (così i seguaci di Abu Bakr el-Baghdadi indicano il loro “califfato” islamico) e che, dopo la sconfitta del Daesh (acronimo arabo dispregiativo che indica appunto l'organizzazione Is), si sono sparpagliati in tutta la regione. Alcuni di loro hanno rinnegato la causa integralista, ma si tratterebbe, secondo indicazioni di intelligence, di una minoranza, a fronte di uno zoccolo duro che potrebbe tentare di destabilizzare nuovi scenari.

In patria, si teme che possano saldarsi con gruppi jihadisti locali: nell'area montuosa occidentale, nonostante ripetute ed efficaci operazioni anti-terroristiche, sono ancora arroccate sacche di resistenza dei miliziani filo-qaedisti di Uqba bin Nafi e di quelli fedeli al califfato, gli uomini del Jund al-Khilafah. Non vanno sottovalutati neanche i cosiddetti “cani sciolti”, che hanno continuato a segnare il territorio tunisino nel quadriennio intercorso fra il 2015 (attentati del museo del Bardo e della località turistica di Sousse) e il 27 giugno di quest'anno, quando un duplice attacco coordinato avvenuto nella capitale ha dimostrato la determinazione integralista. Proprio questo evento ha convinto le autorità ad aumentare il livello di allerta e le misure di sicurezza non solo a Tunisi, ma in prossimità di tutti gli snodi nevralgici e dei siti sensibili del Paese. Nell'immediato, è il regolare svolgimento di un appuntamento cruciale per la giovane democrazia ciò che preme particolarmente al governo: il voto presidenziale di domenica 15 settembre (e un eventuale secondo turno due settimane dopo) giunge in un frangente delicato.

A seguito del decesso del presidente Béji Caïd Essebsi, lo scorso 25 luglio, un temporaneo vuoto di potere ai vertici dello Stato ha reso indispensabile anticipare la chiamata alle urne di due mesi, lasciando invece immutato il calendario del voto parlamentare (6 ottobre). In una cornice sociale di sostanziale delusione nei confronti della classe politica, incapace di rilanciare la crescita economica e il processo democratico, la sirena islamica radicale potrebbe avere gioco facile nel reperire manodopera fresca, qualora i nuovi eletti non sapessero scuotere il paese dal torpore attuale.

“La disoccupazione giovanile è strettamente collegata all'instabilità politica”, si legge in un recente rapporto della Banca africana per lo sviluppo, i cui vertici mettono in guardia i decision makers tunisini dai rischi di una Caporetto economico-sociale: oggi come otto anni fa, alla vigilia della rivoluzione, nelle aree rurali del Paese ha un lavoro solo un giovane su tre, mentre nelle città il rapporto è di uno a cinque. E pure fra i diplomati e i laureati niente è cambiato nonostante la fine del regime dittatoriale: fra il 30 e il 35 percento dei giovani è senza impiego.

Nell'ultimo video propagandistico dello Stato islamico nella provincia di Kairouan, condiviso mediante social network, i seguaci del Daesh concentrano la propria attenzione sull'importanza del reclutamento di nuove forze in Tunisia, ben sapendo che il terreno seminato dalla disperazione è fertile. L'obiettivo dichiarato dalla Wilayat Kairouan è quello di prendere di mira i turisti stranieri, i tanto odiati “infedeli”. Ma al di là della consueta retorica integralista, il fine è pragmatico, più che ideologico: sgretolare l'unico settore economico in miglioramento, con un boom di presenze del 15 percento circa nei primi cinque mesi del 2019. Nonostante l'allarme per terrorismo e instabilità sociale, la Tunisia, infatti, è tornata in vetta alle località proposte dai tour operator mondiali. Se le previsioni del ministero del Turismo tunisino dovessero rivelarsi fondate, 9 milioni di viaggiatori avranno visitato la Tunisia a fine 2019. Una gallina dalle uova d'oro che, nel 2010, rappresentava il 21 percento del Pil nazionale, impiegando centinaia di migliaia di lavoratori, e che può ancora aspirare all'eccellenza.

Sempre che sviluppo economico e sicurezza nazionale, due facce della medesima medaglia, vadano di pari passo, nell'agenda politica della nuova classe dirigente tunisina.

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AUTORI

Federica Zoja
Giornalista

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