Come i vecchi re d’un tempo, nel luglio del 2011, Nelson Rolihlahla Mandela si è ritirato nella terra d’origine dove nacque nel lontano 1918, presso Qunu nella Provincia del Capo Orientale, la terra del popolo xhosa di cui ha fatto parte e che lo ha rinominato Madiba, titolo onorifico di clan, dopo che i missionari della scuola frequentata da bambino lo avevano chiamato Nelson.
Questo passo verso l’altrove, questo movimento centripeto, è stato l’inizio del lento tramonto all’orizzonte di un grande sole infuocato che ha brillato nel vasto cielo sudafricano, anche quando Mandela era rinchiuso a Robben Island nella notte lunga 27 anni della sua prigionia durante l’apartheid, dal 1963 al 1990.
Dinanzi alla vicenda avventurosa di una vita così intensa e così pubblica – e nell’ultimo ventennio sotto gli occhi del mondo intero – l’osservatore s’interroga su quanto abbia significato per il suo paese, il Sudafrica, la presenza e l’azione di una figura tanto di spicco. E si chiede come e quanto abbia influito sulla cultura e le scelte del suo popolo quest’uomo dall’ombra così lunga: un’ombra che ancora si staglia sullo sfondo variegato e multicolore del paese dell’arcobaleno.
Se si ritorna indietro nel tempo, guardando al lunghissimo arco della sua storia, ci si accorge che sin dai primi anni il giovane Mandela appare dotato di qualità e talenti eccezionali e che in sé unisce il passato della tradizione africana e il futuro di una nuova generazione. Nato in una reggia xhosa e qui allevato nella dimensione della regalità naturale, con una storia per certi versi simile a quella del mitico re zulu Chaka, quindi educato nelle scuole missionarie dell’epoca, sfugge al controllo familiare e comunitario quando è poco più che adolescente, trasmettendo immediatamente un messaggio d’indipendenza e autodeterminazione con la sua fuga da Qunu e l’approdo a Johannesburg. Il periodo di lavoro in miniera è breve, ma fa parte dell’apprendistato a tutto tondo che un capo deve acquisire per poter accedere al comando. Il passaggio di rango si ha con l’adesione agli ideali politici dell’Anc (African National Congress) e lo svilupparsi delle aspirazioni intellettuali e insieme etiche verso la carriera di avvocato: uno dei pochi avvocati neri, insieme a quell’Oliver Tambo che gli sarà compagno sino alla fine della vita e con il quale si getterà nella difesa dei deboli e dei perseguitati agendo sotto il segno di un concetto chiaro e fermo della necessità di giustizia e libertà per tutti gli esseri umani.
Quando negli anni ’40 dà la scalata alla gerarchia dell’Anc e poi gioca la mossa audace dello scavalcare le vecchie generazioni moderate e quasi timide attraverso la Youth League forte di idee nuove, Mandela è ormai un uomo fatto. Negli anni ’50 le foto della rivista «Drum» trasmettono l’immagine di un uomo alto e robusto che sa sorridere in modo affascinante ma anche rabbuiarsi nel corruccio e nel rifiuto. È un leader riconosciuto e abile, che ha preso molto da chi lo ha preceduto e che possiede il senso della propria cultura d’origine, ma allo stesso tempo vuole innovare e sconvolgere quell’ordine/disordine che è ormai il regime dell’apartheid. La prova del fuoco è il Treason Trial che nel 1956 porta alla sbarra oltre 150 esponenti della lotta antiapartheid, e da cui uscirà assolto clamorosamente grazie anche a una difesa impostata lungo uno stile di rottura con il sistema. La sua vita si va facendo esempio pubblico, i suoi gesti riassumono le volontà di molta parte del movimento e della lotta, le sue parole pesano e contano nel gioco politico che si va facendo sempre più pericoloso. Tutta la tenacia di Mandela si riversa nell’intraprendere per vie legali il cammino della lotta al regime sempre più oppressivo, ma quando capisce che la strada è chiusa, è il primo a invocare la lotta armata giustificandola in nome della necessità ineluttabile dei diritti umani. Diventa così il capo dell’Umkhonto we Sizwe (MK), braccio armato di un Anc sempre più deciso a lottare per i propri principi in un momento in cui tutta l’Africa si sta facendo indipendente con la fine delle colonie. Mandela capisce bene l’urgenza dei tempi, sa interpretare le spinte popolari, ma anche imprimervi nuovo impeto e un significato più chiaro e cogente: per questo viene designato a rimanere nel paese e scatenare i sabotaggi mirati quando l’intera leadership Anc se ne va in esilio nell’onda della repressione dei primi anni ’60 iniziata con il massacro di Sharpeville.
Il fatto che venga scelto proprio lui a guidare la lotta nella clandestinità, e quindi affrontare il processo di Rivonia e il carcere a vita, si spiega proprio con le eccezionali qualità che gli vengono riconosciute e che fanno di lui, oltre che un combattente, anche un simbolo del combattimento stesso. A questo punto è più che mai chiaro che la vicenda di Mandela si identifica con quella del paese in lotta e si presta a venire trasformata in un’icona per la quale il mondo intero invocherà libertà e cambiamento. L’Anc in esilio fa di lui un simbolo assoluto, mentre lui, nell’ombra del carcere, riesce a tessere una sua tela di perenne analisi politica che approderà all’offerta di trattative alla leadership del National Party. Tutto nella vita di quest’uomo diventa leggenda e si codifica nel mito dopo la riapparizione in pubblico del 1990. La leggenda e il mito entusiasmano, incantano e trascinano le folle: ma dietro a essi vi è una lunga storia di sforzi, analisi, battaglie, prudenti riflessioni e audaci mosse politiche; una solida capacità di lavorare con gli altri, con i compagni di viaggio così diversi e diversamente motivati accomunandoli in un unico corpo in guerra. E oltre il mito trapela anche la capacità di quest’uomo di inventare gesti di pace e di riconciliazione, parole accorate e potenti che uniscono in una commozione condivisa i cittadini del paese. Insieme all’icona personale, infine, tutto un movimento politico che si serve di lui e contribuisce a dargli forza e prestigio. Mandela è stato anche la creazione dell’Anc che, in perfetto stile africano, ha fatto di lui una lancia e uno scudo di guerra, una sagoma fulgida che continua a irradiare luce anche con l’appannarsi opaco inesorabilmente causato dagli anni che scorrono.
Da quando esce dal carcere in mezzo a un delirio di folla, la sua influenza di personaggio pubblico si va intensificando, grazie anche alle sue eccezionali doti mediatiche, Mandela, pur nella sua naturale sobrietà, sa essere un “uomo del popolo” con immediatezza spontanea e trasmettere così un fascino irresistibile. Più re che leader repubblicano, ha saputo però unire l’eleganza e il prestigio del rango a straordinaria intelligenza politica ed equilibrio di uomo di governo.
Tuttavia, nell’insieme del suo comportamento, egli rimane una maschera spettacolare che si vorrebbe sempre poter oltrepassare, penetrare, per leggervi ciò che sta aldilà, l’uomo segreto, l’uomo solo che sembra sempre offrirsi, ma in realtà perennemente si nega. E però, più Mandela si offre allo sguardo altrui e più sembra ritrarsi dalla scena, scivolando dietro la maschera sfolgorante d’oro sudafricano. Anche Mandela è preda della cultura mediatica contemporanea che trasforma uomini e donne in idoli per meglio darli in pasto alla folla.
Itala Vivan, docente all’Università degli Studi di Milano