Come si spiegano gli errori e le incongruenze della politica mediorientale di Obama? Derivano davvero dalla mancanza di una strategia o conseguono, anche, a scelte sottaciute e costrizioni che a lungo si è sperato di poter gestire o quantomeno eludere?
Se collochiamo il Medio Oriente nel contesto più generale di una politica estera e di sicurezza a lungo considerata efficace e concreta - oltre che apprezzata dall'elettorato - otteniamo alcune risposte a queste fondamentali domande. Il "Pivot verso l'Asia" è stata l'iniziativa politica e retorica più importante della politica estera obamiana. Atta a enfatizzare il riorientamento delle priorità geopolitiche degli Stati Uniti, essa serviva a rimarcare la nuova centralità dell'Estremo Oriente e la necessità, quindi, di rimodulare l'apparato concettuale e operativo dell'azione internazionale di Washington. Implicito, ancorché omesso, era che questa svolta determinava (ed era permessa da) un ridimensionamento dell'importanza del Medio Oriente, che nel decennio precedente era stato il teatro primario degli interessi strategici, e delle preoccupazioni politiche, statunitensi. La politica estera non è un gioco a somma zero, a maggior ragione per la potenza egemone del sistema internazionale quale gli Stati Uniti ancor oggi sono. In un periodo però di risorse decrescenti e di forte avversione interna ad un'azione internazionale interventista e globale, trasferire impegni e spese in Asia comporta ridurre i medesimi altrove. Per varie ragioni, l'amministrazione Obama pensava possibile farlo anche attraverso una riduzione della centralità del Medio Oriente.
Era, quello dal teatro mediorientale, un disimpegno in parte forzoso: imposto, cioè, dai fallimenti degli anni precedenti e dal fiasco iracheno in particolare. Ma era un disimpegno agevolato anche da alcuni rilevanti trasformazioni e dal convincimento che una presenza meno invasiva degli Stati Uniti avrebbe facilitato la risoluzione di alcuni degli intrattabili dilemmi dell'area. Tra le prime va certamente inclusa la minor dipendenza statunitense dal petrolio mediorientale. I dati variano a seconda delle fonti, ma è indubbio che la combinazione virtuosa di innovazioni tecnologiche e politiche pubbliche di sostegno a fonti alternative, su tutte il metano, ha sortito un impatto significativo, destinato a consolidarsi negli anni a venire laddove le implicazioni ambientali di queste trasformazioni si rivelassero tollerabili. Se da un lato l'amministrazione Obama pensava possibile un parziale sganciamento dal Medio Oriente, dall'altro lo riteneva anche necessario per evitare che l'ingombrante presenza statunitense ostruisse i processi di democratizzazione e liberalizzazione che le "primavere arabe" si auspicava stessero catalizzando. E si sperava,infine, che questo parziale disimpegno americano agisse indirettamente come strumento di pressione sul governo israeliano, inducendolo a abbandonare la rigidità negoziale degli ultimi anni.
Per qualche tempo questa strategia è parsa funzionare. L'intervento in Libia ha rappresentato nel post-Guerra Fredda il primo caso di azione multinazionale non promossa e guidata dagli Stati Uniti (anche se poi la preponderante forza aerea statunitense è risultata come sempre cruciale). Ed ha comunque ottenuto un ampio consenso, interno e internazionale, facilitato dalle diverse risoluzioni del consiglio di Sicurezza dell'Onu e solo in parte mitigato dal mancato coinvolgimento del Congresso. Rubricate con troppa fretta sotto un comune denominatore assai tenue e artificiale, le "primavere arabe" sono sembrate confermare la bontà di questa svolta e la capacità degli Usa di Obama di appoggiare, o quantomeno assecondare, quello che era interpretato come un inarrestabile processo storico (con pari superficialità, molti intellettuali neoconservatori leggevano le primavere arabe come una rivendicazione della lungimiranza della dottrina Bush e dell'intervento in Iraq nel 2003).
Una strategia quindi c'è stata. Ma si fondava su condizioni precarie e rispondeva all'oggettiva debolezza dell'America post-2008, che disponeva di meno strumenti di pressione sui diversi attori mediorientali, si confrontava con un'opinione pubblica interna sempre più critica nei confronti della presenza statunitense nella regione ed era comunque vieppiù concentrata su altre aree e priorità.
Il mutare del quadro regionale, la sua crescente volatilità e la capacità, nel caso egiziano, dell'Islam politico di sfruttare le nuove opportunità che gli venivano offerte convergevano nell'alterare l'equazione complessiva e, con essa, le preoccupazioni e le urgenze statunitensi. L'opzione estrema - il sostegno o quantomeno l'accettazione del golpe egiziano e, ancor più, la quasi certa decisione di scegliere l'opzione militare in Siria - diventa pertanto indicativa di una debolezza: un modo per provare a forzare una situazione intricata, forse irresolubile, in un teatro la cui importanza per gli Stati Uniti sembra essere scemata al scemare della loro influenza.
* Mario Del Pero, Università di Bologna
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