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Commentary

Lotta al cambiamento climatico: e ora?

Matteo Villa
27 Dicembre 2016

9 novembre 2016: gli sguardi tetri dei delegati nazionali alla COP22 di Marrakech sono tutto un programma. La vittoria di Donald Trump ha trasformato la conferenza, che sarebbe dovuta servire a congratularsi reciprocamente per il lavoro fatto nel corso del 2016, in un’autopsia dell’esito delle elezioni americane e del loro possibile impatto sui negoziati internazionali sul clima. E dire che solo cinque giorni prima, grazie anche alla storica procedura di “ratifica rapida” utilizzata dai paesi dell’Unione Europea, erano entrati in vigore in tempi record gli accordi di Parigi, siglati meno di un anno prima al termine di un frenetico lavorio delle cancellerie mondiali.

Per i delegati a COP22, la vittoria di Trump era probabilmente il simbolo di come anche i negoziati climatici avessero fatto il loro ingresso nell’era della post-verità: un’epoca in cui i movimenti anti-establishment sono sempre più capaci di sfruttare la potenza creativa (e distorsiva) dei social network e di tutti quei siti che generano un flusso costante di notizie fuorvianti, o del tutto false, trasformando le sensazioni in fatti.

Il temuto salto di qualità della retorica qualunquista arriva in un momento critico per la lotta al cambiamento climatico. Quello che volge al termine sarà con molta probabilità l’anno più caldo da quando disponiamo di strumenti moderni per misurare la temperatura media dell’atmosfera terrestre, mentre il volume della calotta artica ha toccato negli ultimi anni picchi minimi sempre più bassi.

Cosa accadrà? Probabilmente non ciò che teme chi paventa una catastrofe. Non è certo da oggi che il dibattito sul clima è popolato dai cosiddetti “negazionisti”, una schiera piuttosto nutrita, molto politicizzata e amante del dibattito a senso unico. Intendiamoci: ogni sano dibattito scientifico, per potersi definire tale, dovrebbe dare parola agli scettici, e il consenso della comunità scientifica deve essere capace di rimettersi in discussione ed evolvere di fronte al mutare delle evidenze. Ma i negazionisti vanno oltre, amplificando a dismisura il sospetto che nella scienza climatica predominino le “lobby del cambiamento climatico” e delle energie rinnovabili. Da sostenitori dell’imparzialità della scienza, consapevoli della necessità di vigilare di fronte alle note tentazioni catastrofiste di certo giornalismo, hanno finito per diventare la cassa di risonanza per lobby diverse ma altrettanto potenti.

Negli ultimi anni, malgrado la sua popolarità su internet, il discorso negazionista è parso sempre più in difficoltà. L’accumularsi dei dati ha costretto i suoi fautori a renderlo sempre più complesso (e un po’ paranoide). Inoltre, nel 2015, persino gli amministratori delegati di sei grandi compagnie petrolifere internazionali, Eni inclusa, avevano scritto alle Nazioni Unite una lettera congiunta non solo a favore della riduzione delle emissioni di gas serra (GHG), ma persino dell’estensione a livello globale dei mercati del carbonio. E non va dimenticato che proprio quest’anno i paesi del G7, Stati Uniti in testa, al vertice di Ise-Shima si sono impegnati a porre fine ai sussidi all’industria dell’energia fossile (carbone, petrolio e gas naturale) entro il 2025.

La comunità internazionale ha dunque già sviluppato i suoi anticorpi alla post-verità? Probabilmente sì, anche se il consenso politico rimane fragile. Innanzitutto, gli stessi accordi di Parigi contengono impegni al ribasso rispetto agli sforzi ritenuti necessari per evitare che il riscaldamento climatico superi la soglia dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali. In secondo luogo, la clausola più importante degli accordi richiede sostegno costante da parte di tutti i maggiori emettitori mondiali. I paesi firmatari si sono infatti impegnati a rivedere ogni cinque anni le promesse fatte, sulla base di una valutazione dell’effetto che le loro azioni hanno avuto nei cinque anni precedenti sul clima terrestre. Una vera novità rispetto alle promesse, come quelle contenute nel Protocollo di Kyoto, che avevano carattere di una tantum ed erano soggette a revisione solo su base volontaria.

Inoltre, se l’amministrazione Trump dovesse decidere di non mantenere alcuni degli impegni presi da Obama (ossia ridurre entro il 2025 le emissioni di gas serra statunitensi del 26-28% rispetto ai livelli del 2005), molti altri paesi da sempre restii a prendere impegni internazionali sul cambiamento climatico potrebbero reagire di conseguenza: si pensi solo alla Cina, che oggi è di gran lunga la prima responsabile delle emissioni annue di GHG. Di strumenti per non ottemperare agli accordi Trump ne avrebbe tanti, anche perché di fronte a un Senato ostile Obama ha deciso di ratificare gli accordi di Parigi con un sole executive agreement, ovvero senza passare dal Congresso. Il che renderebbe possibile un’azione uguale e contraria del presidente entrante, per non parlare delle cause legali in corso contro la decisione di Obama.

Eppure, nonostante la fragilità degli accordi internazionali, prevalgono ragioni per continuare a essere ottimisti. Come detto, sul piano legale e politico Trump potrebbe davvero dare un colpo non indifferente ai negoziati climatici. Ma la realtà è che non è detto che abbia davvero interesse a farlo, nonostante la grande risolutezza dimostrata in campagna elettorale e ancora nelle ultime settimane, con la designazione di Scott Pruitt, noto negazionista, a capo della Environmental Protection Agency. Non dimentichiamo che nel 2015 negli Stati Uniti oltre 750.000 persone erano ormai impiegate nell’industria “verde”, contro le circa 400.000 impegnate nell’estrazione e lavorazione degli idrocarburi. Nella sua retorica del “riportare a casa i posti di lavoro”, se Trump deciderà di finanziare l’industria fossile non potrà che farlo a discapito delle rinnovabili, con effetti occupazionali non necessariamente positivi.

Anche Pechino e New Delhi dovranno agire in ogni caso, se non per arginare il cambiamento climatico (percepito come un problema di là da venire, e comunque causato dai paesi avanzati), quanto meno per limitare l’inquinamento nelle grandi città. Non solo perché, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’inquinamento uccide ogni anno oltre un milione di persone in Cina e 600.000 in India. Ma anche perché, come invece stima l’OCSE, gli effetti sull’economia in caso di mancata azione nei prossimi decenni saranno massimi per Cina, Russia e India.

Dobbiamo però riportare i piedi per terra. I dati attualmente a disposizione della comunità scientifica ci dicono che, per limitare il cambiamento climatico, sarebbe necessaria un’azione molto più rapida e incisiva, sostenuta da miliardi di investimenti all’anno. Decine di paesi in via di sviluppo avrebbero bisogno di aiuti internazionali per finanziare la transizione del loro sistema economico verso uno a minore intensità di emissioni. E attendersi una comunità internazionale impegnata a limitare i danni di Trump e a salvaguardare l’esistente significa comunque escludere ulteriori passi avanti nel futuro prossimo venturo.

Per questo il 2017, anche su questo fronte, si preannuncia caldissimo. Possiamo solo sperare che il pianeta non lo sia altrettanto.

 

 

Matteo Villa, ISPI Research Fellow

 

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Matteo Villa
ISPI Research Fellow

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