L’autunno anche quest’anno è arrivato. Ma sarà ben diverso da quello del 2019 sul fronte della congiuntura economica globale e delle prospettive di breve e medio termine. Sarà un autunno “storico”. La pandemia ha innescato una delle crisi mondiali più drammatiche, la peggiore dai tempi della Grande Depressione, arrivando a superare persino la crisi finanziaria del 2008. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) prevede, alla fine del 2020, una contrazione economica del -4,9% a livello globale. Contrazione che, tuttavia, non sarà percepita allo stesso modo dai vari Paesi e regioni del mondo. I diversi livelli di esposizione alla malattia, le differenti strategie e capacità di ripresa a breve e lungo termine, e le preesistenti disuguaglianze socio-economiche saranno elementi chiave nella definizione di una nuova classifica globale nello scenario post-COVID. Con nuovi vincitori e nuovi sconfitti.
La sfida sino-americana
Questa rassegna della salute economica del mondo non può che partire da Stati Uniti e Cina. Nella corsa per la supremazia globale le due superpotenze hanno seguito una traiettoria molto differente per quanto concerne l’emergenza sanitaria, l’impatto economico e la conseguente risposta alla crisi. Con conseguenze diverse
Prima economia colpita a livello mondiale dal coronavirus, la Cina ha risposto immediatamente con un severo lockdown nella regione di Wuhan, e poi con restrizioni che hanno interessato l’intero territorio nazionale. Le misure di contenimento hanno avuto l’effetto immediato di produrre una contrazione del Pil pari al -6,8% nel primo trimestre 2020. Il 22 maggio, in risposta alla deteriorata congiuntura economica, il governo di Pechino ha adottato un consistente piano di stimolo fiscale di un importo pari a 4,6 trilioni di renminbi (680 miliardi di dollari, pari al 4,5% del Pil).
La particolarità dell’azione fiscale consiste nell’erogazione dei fondi ai governi locali, per favorire la costruzione o il potenziamento di infrastrutture locali (e non grandi piani nazionali) o il sostegno alla domanda privata. Inoltre, il piano si è focalizzato sull’aumento delle spese in campo sanitario per il controllo e la lotta all’epidemia, fondi per l’assicurazione contro la disoccupazione, riduzioni della pressione fiscale ed esenzione temporanea dei pagamenti dei contributi sociali. Per la prima volta non è stato adottato un target di crescita per il 2020, segno che l’attività del Governo è concentrata sulla stabilizzazione della disoccupazione e dei mercati piuttosto che sul mantenimento dei target di crescita pre-pandemia.
La cura sembra funzionare. Nel secondo trimestre dell’anno, grazie anche all’allentamento delle misure di contenimento, la Cina è uscita dalla recessione, con un incremento del Pil del +3,2% su base annua (+11,5% sul trimestre precedente). Si tratta di un’eccezione assoluta tra i membri del G20, che proprio nel secondo trimestre hanno registrato complessivamente una caduta del Pil del -9,1%. Nel complesso, l’OCSE stima per la Cina un incremento del Pil per il 2020 pari all’1,8% e un’accelerazione nel 2021, con una crescita stimata dell’8%.
Sull’altra sponda del Pacifico, gli Stati Uniti stanno vivendo una situazione decisamente differente e, per certi versi, più preoccupante, con un crollo del Pil nel secondo semestre del 2020 pari al 31,7%, dopo la contrazione del -3,7% nel primo trimestre dell’anno.
L’Amministrazione americana ha finora reagito con una serie di pacchetti fiscali del valore complessivo di circa 3 trilioni di dollari. L’8 agosto il Presidente Trump ha adottato un ordine esecutivo per il prosieguo di determinate misure scadute o in fase di scadenza. Tali misure hanno incluso: l’utilizzo di 44 miliardi di dollari dal Disaster Relief Fund per assicurare il rinnovo delle tutele contro la disoccupazione; la continuazione del sostegno al pagamento delle tasse per gli studenti universitari; la dilazione nei pagamenti dei contributi sociali e misure a sostegno degli affitti. Il secondo pilastro è dato dal Paycheck Protection Program and Health Care Enhancement Act, approvato nell’aprile 2020 per un valore di 483 miliardi di dollari: il pacchetto prevede, in particolare, 321 miliardi di ulteriori prestiti a fondo perduto per Piccole e medie imprese che si impegnano a non licenziare i propri lavoratori; 62 miliardi alle amministrazioni locali per fornire prestiti e sussidi alle piccole attività economiche; 75 miliardi a sostegno degli ospedali e 25 miliardi per rafforzare tamponi e test sierologici per la popolazione.
Precedentemente, il 27 marzo, era entrato in vigore il Coronavirus Aid, Relief and Economy Security Act (“CARES Act”) per un valore di circa 2,3 trilioni di dollari (pari all’11% del Pil). Il piano ha assicurato 293 miliardi di rimborsi fiscali per i cittadini americani, fino a 1.200 dollari a persona con accredito immediato sul conto corrente; 268 miliardi per espandere le tutele sulla disoccupazione; 25 miliardi per l’assistenza alimentare ai più bisognosi; 510 miliardi nella forma di prestiti e garanzie alle imprese per evitarne il fallimento; 349 di prestiti a fondo perduto per piccole e medie imprese che si impegnano a non licenziare i propri lavoratori; 100 miliardi per gli ospedali; 150 miliardi di trasferimenti agli Stati federati e alle autorità locali; infine, 50 miliardi per l’assistenza internazionale. Il primo pacchetto, infine, era il risultato dell’azione combinata del Coronavirus Preparedness and Response Supplemental Appropriations Act e del Families First Coronavirus Response Act, per un valore complessivo di circa 200 miliardi di dollari, pari all’1% del Pil, riguardanti fondi di prima emergenza per l’immediata risposta economica e sanitaria alla pandemia.
L’insieme dei pacchetti, la fine delle misure di lockdown - nonostante i numeri ancora preoccupanti di diffusione del virus negli Stati Uniti - e la flessibilità del mercato del lavoro, potrebbero produrre effetti positivi sull’economia americana nella seconda parte dell’anno. Segnali positivi arrivano intanto dalla disoccupazione. Dopo il picco del 14,7% registrato ad aprile, si è infatti assistito a una rapida e costante riduzione, che ha portato il tasso all’8,4% nel mese di agosto. L’OCSE, nelle recenti previsioni di settembre, ha stimato per il 2020 una contrazione del Pil del -3,8%, e un rimbalzo del 4% nel 2021. Numeri difficili da conseguire per il 2020, come recentemente ribadito dalla Federal Reserve, soprattutto qualora l’epidemia non tornasse sotto completo controllo.
Una crisi economica complessa, dunque, che ha investito entrambe le economie con impatti differenti e, soprattutto con differenti modalità di reazione. A questo punto, anche la ripresa post-coronavirus sarà elemento centrale della crescente competizione geo-economica ( e geopolitica) tra le due superpotenze, unita alla sfide tecnologica e commerciale. Proprio sotto quest’ultimo aspetto potrebbero aumentare gli elementi di tensione. Le esportazioni cinesi verso il resto del mondo sono aumentate complessivamente del 9,5% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, mentre l’import si è contratto del 2,1%. Tuttavia, è verso gli Stati Uniti che le esportazioni cinesi hanno registrato la migliore performance: nel mese di agosto sono aumentate del 20% rispetto al 2019, mentre l’import di prodotti americani ha registrato un debole incremento dell’1,8%. Di conseguenza, il surplus commerciale della Cina con gli USA ha toccato il record mensile di 34,2 miliardi di dollari, in aumento del 27% rispetto ad agosto 2019. Numeri che sembrano dimostrare la mancata applicazione dell’Economic and Trade Agreement tra Pechino e Washington, attraverso il quale la Cina si impegnava, tra i vari punti, ad aumentare gli acquisti di beni americani nel biennio 2020-2021 per un ammontare pari a 200 miliardi di dollari.
Eurozona: l’anno più nero
Per quanto riguarda l’Eurozona, nel primo trimestre del 2020 si è registrata una contrazione del Pil del -3,6%, seguita da una drastica riduzione nel secondo trimestre pari al -11,8% a causa delle misure restrittive del lockdown e i drammatici numeri della pandemia. Se guardiamo ai dati Eurostat, tra i paesi maggiormente colpiti troviamo Spagna con contrazioni del -5,2% nel primo trimestre del 2020 e -18,5% nel secondo, Portogallo con -3,8% nel primo e -14,1% nel secondo trimestre del 2020, Francia con -5,9% e -13,8% e l’Italia il cui Pil si è contratto nei primi due trimestri del -5,4% e del -12,4%. A fronte di questo scenario critico, ogni Paese dell’Unione sta elaborando piani nazionali di rilancio che possano essere in linea con le raccomandazioni e priorità stabilite dalla Commissione Europea per la distribuzione dei fondi del Recovery Fund attraverso il progetto Next Generation EU, per un ammontare di 750 miliardi di euro di cui 390 miliardi in contributi a fondo perduto e 360 miliardi in prestiti.
Va all’Italia la fetta più grande dei fondi europei, con 82 miliardi di euro in sovvenzioni e 17 miliardi in prestiti. Al piano di rilancio di maggio da 55 miliardi di euro, incentrato su tre principali “assi di rafforzamento” quali digitalizzazione e innovazione, rivoluzione verde e parità di genere e inclusione, si possono aggiungere elementi proposti dall’UE in supporto ai Paesi membri, come il programma “Support to mitigate Unemploymnet Risks in Emergency”, o SURE, per la protezione di posti di lavoro, e la linea di credito garantita dal Meccanismo Europea di Stabilità, o MES (ma sul ricorso a quest’ultimo in Italia in dibattito è acceso), l’ampliamento del fondo di solidarietà e la sospensione del Patto di Stabilità.
Tra i principali beneficiari del Recovery Fund vi sono anche Spagna, al secondo posto con 73 miliardi di euro in prestiti e 67 miliardi in sovvenzioni, e Polonia al terzo, con 26 miliardi in prestiti e 38 in sovvenzioni. Se da una parte l’instabilità politica e le contrastanti visioni all’interno del dibattito pubblico non hanno permesso a questi due Paesi di definire ancora i propri piani di rilancio da presentare in Commissione, dall’altra, Paesi come Francia e Germania, cui andranno rispettivamente 39 miliardi e 29 miliardi in sovvenzioni e nessun prestito, sembrano avere le idee più chiare.
Il “Plan de Relance” francese da 100 miliardi di euro, lanciato il 3 settembre 2020, è basato su tre pilastri principali: la transizione energetica, la coesione sociale e territoriale e la competitività delle imprese, cui sono destinati rispettivamente 30, 36 e 34 miliardi di euro. La transizione verso un’economia verde e sostenibile, basata sullo sfruttamento di energie rinnovabili e digitalizzazione dei servizi emerge come priorità (78 miliardi) anche nel piano di rilancio tedesco da 130 miliardi, lanciato il 3 giugno 2020, insieme a misure di ripresa economica a breve termine (50 miliardi) e strategie di stimolo per la solidarietà europea e internazionale (3 miliardi). Entrambi i piani hanno come obiettivo l’adempimento alle principali raccomandazioni della Commissione, tra cui spiccano posizioni di bilancio a medio termine prudenti, il rafforzamento del sistema sanitario, l’aumento di investimenti privati e pubblici a favore della transizione verde e digitalizzazione dei servizi, come anche la riduzione di oneri amministrativi e fiscali per le imprese. Particolare attenzione alle raccomandazioni della Commissione è stata riservata anche dai Paesi Bassi, con un Fondo Nazionale per la Crescita da 20 miliardi di euro destinato a progetti nelle aree di ricerca, sviluppo, innovazione e infrastrutture.
Nonostante i diversi piani di rilancio, a causa dell’impatto negativo della pandemia aggiuntosi alle lacune strutturali preesistenti in alcune economie della regione, le prospettive economiche per l’intero 2020 elaborate dall’ultimo bollettino della BCE del 24 Settembre si confermano negative, con previsioni pari a -8% per l’Eurozona. Un'analisi più ravvicinata mostra una contrazione pari a -5,4%, -9,5%, -10,5% e -11% rispettivamente per Germania, Francia, Italia e Spagna. Polonia e Olanda registrano invece previsioni al -5,1% e -5,4%. Incoraggianti, tuttavia, le cifre relative alle previsioni per il 2021 e 2022, stimate rispettivamente al 5% e 3,2%.
Russia: la spina nel fianco di Putin.
Una pesante riduzione del Pil è stata stimata anche per la Russia le cui proiezioni economiche, sempre secondo l’OCSE, prevedono una recessione per l’anno 2020 pari al -7,3%, anche alla luce dell’impatto negativo della pandemia COVID-19. Tuttavia, se questo impatto si è fatto sentire già da febbraio nei principali Paesi UE, in Russia il virus sembra essere arrivato tardi, con il primo caso confermato nella capitale il 2 di marzo. Anche grazie a questo ritardo, il Pil ha dunque registrato una crescita complessiva dell’1,6% nel primo trimestre del 2020, decelerando rispetto a quello dell’ultimo trimestre del 2019 pari al 2,1%. Il secondo trimestre del 2020 ha però visto l’economia russa contrarsi ancora dell’8%, ulteriormente danneggiata dalle misure restrittive di lockdown e dalla crisi dei prezzi del petrolio.Per attutire l’impatto negativo della pandemia, il Paese ha adottato un piano di rilancio da 149,8 miliardi di dollari, circa il 9% del Pil. Tra le misure chiave adottate in questo piano è possibile identificare sussidi di disoccupazione e sussidi forfettari per famiglie con minori, aumento degli indennizzi per il personale medico e ispettori sanitari, agevolazioni sui tassi di interesse e differimenti dei contributi sociali per piccole e medie imprese, rimborsi parziali delle imposte per i lavoratori autonomi, con particolare attenzione ai settori maggiormente colpiti quali settore sanitario, settore del turismo e dei trasporti.
Asia: eccezione ASEAN
Il continente asiatico è stato colpito in modo estremamente differenziato al suo interno, sia per quanto concerne l’emergenza epidemiologica, sia per quanto riguarda l’impatto economico della pandemia sulle diverse economie della regione.
L’Asian Development Bank (ADB), nel suo recente outlook di settembre, ha confermato le prospettive negative per il totale delle economie asiatiche in via di sviluppo (inclusa la Cina) stimando una contrazione annuale del Pil 2020 pari al -6,8%: il peggior risultato dal 1961. Il rimbalzo del 2021 sarà solo parziale, con una crescita prevista del +6,1%. La banca calcola in 3,6 trilioni di dollari - pari al 15% del Pil regionale - le necessità di misure fiscali per contrastare la crisi economica, in particolare attraverso politiche di sostegno al reddito.
Per le economie ASEAN il crollo sembra tuttavia molto più contenuto: l’ADB stima infatti una contrazione del -2,7% nel 2020. Le economie del Sud-Est asiatico non sono state risparmiate dalla crisi, sebbene sembrino reagire con maggiore tonicità. Nel secondo trimestre del 2020, rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente, l’economia della Malaysia si è contratta del -17,1%, le Filippine del -16,5%, Singapore del -13,2%, la Thailandia del -12,2%, l’Indonesia del -5,3%; solo il Vietnam è riuscito a contenere i danni, registrando un incremento marginale della crescita pari allo 0,4%. Serve tuttavia ricordare come quest’ultimo Paese registrasse prima della crisi tassi di incremento del Pil del 7% annuo, e come la sua stretta integrazione economica con la Cina abbia permesso di beneficiare della ripresa dell’economia cinese nel secondo trimestre dell’anno. Momento favorevole confermato anche dall’entrata in vigore il 1° agosto dell’accordo di libero scambio tra Unione europea e Vietnam: il trattato favorirà aumenti dei flussi commerciali bilaterali fino al 30%, rendendo il Paese una delle principali piattaforme logistiche e commerciali per i commerci tra Asia ed Europa.
Giappone: una pesante eredità
La seconda economia asiatica, il Giappone, nel secondo trimestre del 2020 ha subito una contrazione dell’attività economica pari al -7,8% rispetto al primo trimestre 2020, e del -27,8% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente. Il crollo delle esportazioni (-18,5%) e dei consumi (-8,2%) hanno contribuito in misura maggiore alla negativa performance economica del Paese.
Nel tentativo di arginare l’impatto della pandemia, il Governo nipponico ha adottato due successivi piani di stimolo di pari valore. Il primo piano, l’Emergency Economic Package Against COVID-19 è stato varato in aprile per un valore complessivo di 1,14 trilioni di dollari, pari al 21,1% del Pil 2019. Il piano mirava essenzialmente a cinque obiettivi: 1) sviluppare misure preventive contro la diffusione dell’infezione, rafforzando le capacità di reazione (0,5% Pil); 2) sostegno all’occupazione e alle attività economiche (16% del Pil); 3) ripresa dell’attività economica dopo il periodo di lockdown (1,5% Pil); 4) ricostruire un tessuto economico resiliente alla crisi, con un focus sull’innovazione (2,8% del Pil); 5) rafforzamento delle capacità di risposta alle future crisi (0,3% del Pil). Il secondo pacchetto di stimolo, varato a fine maggio, e in vigore da giugno, replica gli importi del primo piano.
L’allentamento delle misure restrittive e la conseguente ripresa delle attività economiche, unitamente all’azione combinata di politica fiscale e monetaria espansiva, potrebbero produrre una leggera ripresa nella seconda parte dell’anno. L’OCSE prevede infatti per l’economia nipponica una contrazione del -5,8 nel 2020 e una ripresa estremamente debole nel 2021, con un tasso di crescita previsto dell’1,5%. In questo contesto, tuttavia, i dati sul commercio relativi ad agosto evidenziano un crollo delle esportazioni verso il resto del mondo del 15% rispetto all’anno precedente, con una contrazione ancora più marcata per le importazioni (-20%). Non un buon segnale per un Paese in cui il contributo delle esportazioni al Pil è fondamentale. E una pesante eredità per il successore del premier Abe.
India: drammatico primato
Uno scenario più preoccupante caratterizza invece le proiezioni economiche nel caso dell’India. Secondo le stime dell’OCSE per il primo trimestre del 2020, l’India è risultata, insieme a Russia e Turchia, l’unico paese del G20 a registrare un tasso di crescita positivo del Pil pari a +0,7%. Come per la Russia, questo andamento può essere ricondotto anche all’impatto tardivo della pandemia nel paese che, nonostante il primo caso di coronavirus si stato registrato il 30 di gennaio, è entrato in lockdown solo il 24 marzo. Tuttavia, le lacune nel sistema di monitoraggio e numero di tamponi, unite a una condizione critica in termini di sistema sanitario nazionale e previdenza sociale, hanno rapidamente portato il Paese al primo posto in Asia, e secondo nel mondo, per numero di contagi, circa 5,5 milioni. L’ascesa repentina della pandemia ha provocato, nel secondo trimestre del 2020, un impressionante calo del Pil del -25,2%, facendo sprofondare:drammatico la nazione in una delle più gravi recessioni dai tempi dell’Indipendenza nel 1947.
L’improvviso lockdown ha impattato principalmente le fasce più deboli della popolazione, tra cui agricoltori, lavoratori migranti e lavoratori giornalieri a basso reddito, cui è principalmente rivolto il piano di rilancio del governo da 376 miliardi di dollari, (circa il 13% del Pil nazionale). Le principali misure riguardano infatti piani di sostegno al reddito attraverso la fornitura di beni di prima necessità quali cibo e gas alle famiglie più vulnerabili, copertura assicurativa per i lavoratori del settore sanitario e sostegno ai salari e all'occupazione per i lavoratori a basso reddito e alle piccole imprese, con un ulteriore 0,1% del Pil destinato alle infrastrutture sanitarie, uno 0,4% al settore elettrico e uno 0,7% a quello agricolo. Queste varie forme di supporto non saranno però sufficienti a risollevare le sorti del subcontinente, preda, oltre che di una disastrosa diffusione della pandemia, anche di preesistenti carenze strutturali a livello economico, politico e sociale. Le prospettive economiche per l’anno 2020 si confermano infatti negative, con una recessione prevista del 10,2%
America Latina: un decennio perduto?
L’America Latina, a sua volta, è stata colpita molto duramente dall’emergenza pandemica e potrebbe dover attraversare un decennio perduto di crescita. Non solo riduzione del Pil, bensì un allargamento senza precedenti delle diseguaglianze nelle società del Sud e del Centro-America. Solo nel 2020, circa 45 milioni di cittadini latino-americani sono entrati o entreranno in una condizione di povertà a causa della pandemia, come recentemente stimato dalla Commissione economica delle Nazioni Unite per l’America latina e i Caraibi (ECLAC).
L’intera area, sin da giugno, è stata l’epicentro globale della pandemia, contando il 40% delle nuovi morti per coronavirus a livello mondiale, pur avendo solamente l’8% della popolazione globale. Brasile e Messico hanno adottato un approccio blando nel contenimento del coronavirus, mentre altri Paesi hanno intrapreso misure stringenti. In generale, l’intera regione è entrata in una profonda recessione, che Bank of America stima dell’8,2% per l’anno in corso. Una contrazione economica che si somma ai problemi strutturali delle economie latino-americane, aggravando strutturalmente squilibri di lungo periodo.
Il Brasile, Paese maggiormente colpito dalla pandemia nella regione, ha registrato nel secondo trimestre del 2020 una contrazione dell’attività economica pari al -9,4%, peggior risultato di sempre per l’economia carioca, dopo una riduzione dell’1,5% nel primo trimestre. Il governo centrale ha adottato misure fiscali per rispondere alla crisi per un valore pari 12% del Pil, con un rapporto deficit/Pil stimato all’8,3%. Le misure includono un supporto temporaneo al reddito per i cittadini più vulnerabili (sussidi diretti ai lavoratori a basso reddito, allargamento delle tredicesime ai pensionati, pagamenti anticipati di bonus per i lavoratori a basso reddito), supporto all’occupazione (con cassa integrazione temporanea), riduzione delle imposte su medicinali o materiale medico essenziale, nonché nuovi trasferimenti dal Governo federale agli Stati federati e alle municipalità. Le banche pubbliche, inoltre, si sono impegnate ad aumentare le linee di credito per imprese e consumatori e il Governo concederà linee di credito pari all’1% del Pil alle Pmi e alle microimprese per coprire i costi del personale, del capitale circolante e degli investimenti. Come risultato della grave situazione sanitaria ed economica, l’OCSE prevede che il Pil brasiliano si contrarrà del -6,5% nel 2020, per poi registrare un solo parziale recupero nel 2021, con una stima di crescita del +3,6%.
La situazione dell’Argentina è forse ancor più complicata. Perennemente sull’orlo del default, il Paese ha dovuto affrontare la pandemia con un Pil che già era in contrazione del 2,1% nel 2019. L’ondata pandemica e le successive misure di contenimento hanno aggravato la precedente situazione, con un crollo del -19,1% nel secondo trimestre 2020 rispetto al 2019, dopo una diminuzione del -5,4% nel primo. Una situazione macroeconomica aggravata da un’inflazione al 40% e una disoccupazione a doppia cifra. Per tentare di arginare un crollo senza precedenti del Pil, le autorità centrali hanno annunciato misure pari al 6% del Pil. Inoltre, le autorità hanno adottato meccanismi di controllo dell’inflazione, in particolare per i beni di largo consumo. La situazione rimane complicata ma con alcuni spiragli: recentemente è stato concluso un accordo con i creditori per la ristrutturazione di 65 miliardi di dollari di debito sovrano, svolta che potrebbe riaprire a Buenos Aires l’accesso al mercato dei titoli di Stato. Nel complesso, tuttavia, le prospettive rimangono comunque fosche: l’OCSE stima per l’Argentina un crollo del Pil dell’11,2% nel 2020 e una debole ripresa del +3,2% nel 2021.
Infine, la seconda economia del Sudamerica, il Messico, nel secondo trimestre dell’anno ha registrato una contrazione economica del -18,9% rispetto al medesimo trimestre dell’anno precedente, soprattutto a causa dell’incontrollata diffusione della pandemia nel Paese. La crisi del coronavirus si è inserita in contesto economico già fragile, con il Pil del 2019 già in calo dello 0,3%. Per affrontare l’emergenza, il Governo ha adottato un un pacchetto di stimolo che è stato valutato dai mercati come molto esiguo. Complessivamente, le risorse messe in campo sono pari a 26 miliardi di dollari, l’1% del Pil. Si tratta di misure complessivamente insufficienti, se commisurate alla profondità della recessione in atto e ai pacchetti messi in campo dai principali partner economici del Paese. Le stime dell’OCSE non sono rosee: l’Organizzazione di Parigi stima per il 2020 un crollo del Pil del -10,3%, con una marginale ripresa nel 2021, con una crescita prevista del +3%.
Area MENA e Africa: eccezione Egitto
Anche a Nord e a Sud del Sahara, le previsioni economiche per l’anno 2020 non sembrano affatto incoraggianti. Per quanto riguarda l’area MENA, infatti, la crisi da COVID-19 è andata ad aggiungersi e ad innescare una catena disastrosa di componenti che hanno negativamente influito sulla stabilità economica della regione, tra cui la caduta dei prezzi del petrolio, il calo della domanda interna ed esterna, la riduzione degli investimenti diretti esteri pari a circa il 30% e una diminuzione drastica degli scambi con i partner commerciali principali, tra cui Cina e Europa. Tra i paesi più colpiti dall’interruzione dell’export con la Cina emergono Tunisia e Marocco per macchinari elettrici, Arabia Saudita per prodotti chimici e Emirati Arabi Uniti per prodotti in metallo.
In aggiunta alla crisi sanitaria causata dalla pandemia e all’instabilità politica dovuta al conflitto di interessi tra paesi esportatori e importatori di petrolio, questi elementi hanno contribuito a un indebolimento in termini di efficacia dei pacchetti di rilancio dei paesi nella regione. L’immediata emissione di liquidità da parte delle banche centrali di circa 47 miliardi di dollari (circa 3,4% del Pil medio della regione) e le misure fiscali corrispondenti al 2,7% del Pil (le più basse a livello globale) andranno infatti a operare in uno scenario economico con una recessione stimata al -4,2% per il Pil della regione nel 2020. Se da una parte Libia e Libano rappresentano i paesi più colpiti con un calo drastico del Pil stimato rispettivamente al -58,1% e -12%, l’Egitto emerge invece come uno tra i pochi paesi della regione a crescere, con un aumento del Pil stimato intorno al +3,8% per il 2020, stimolato dall’aumento del turismo e degli investimenti esteri negli ultimi anni e dall’attuale pacchetto di stimoli pari a circa il 6,5% del Pil.
L’aumento delle spese legate alla ripresa post-pandemia costituiranno un importante peso anche a livello di deficit fiscale della regione, che si stima aumenterà dal 2,8% del Pil nel 2019 al 10% del Pil nel 2020. Questi rischi avranno conseguenze più ingenti per paesi come Algeria, Bahrain, Iraq, Iran e Oman, con margini di bilancio più contenuti.
Nonostante un pacchetto di stimolo fiscale equivalente a una media del 3% del Pil, di cui tre quarti destinati a spese nel settore medico e sanitario, anche le proiezioni per le economie dei principali paesi dell’Africa Sub-Sahariana rimangono poco rassicuranti. Secondo le previsioni per l’anno 2020, Mauritius e Zimbabwe risultano i due paesi più colpiti, con una contrazione dell’11,5% e -8,4%, seguiti da São Tomé & Príncipe, Lesotho e Botswana con contrazioni rispettivamente dell’8,2%, 7,3% e 7,3%. Anche l’economia del Sud Africa, in parte aiutata da un pacchetto di stimoli pari a circa il 7% del Pil (per lo più diretti al sistema sanitario e alla tutela dei posti di lavoro), è prevista ridursi del -7,5%, mentre per l’economia della Nigeria si prevede una contrazione del -5,4%, nonostante stimoli pari a circa 2% del Pil per lo più destinati, ancora una volta, al sistema sanitario. Malawi e Namibia risultano invece gli unici due paesi nel sud del continente con stime di crescita del Pil pari rispettivamente a +0,6% e +2,6% per l’anno 2020.
Da uno scenario pre-COVID con crescita prevista dal +0,7% nel 2019 al +2,1% nel 2020 e +2,5% nel 2021, l’area Sub Sahariana è dunque passata a una contrazione stimata al -6,6% per l’anno 2020, a causa delle misure restrittive e all’impatto negativo della pandemia su settori chiave, come turismo e agricoltura, in aggiunta alle antecedenti fragilità economiche, sociali ed istituzionali tipiche della regione. Questi i motivi che contribuiranno a un ulteriore deterioramento del deficit fiscale, stimato in media al 7,6% del Pil nel 2020, quasi il doppio del 4,4% del 2019.
Un quadro ancora incerto
In quest’autunno dell’economia globale, da ultimo, due sono i pericoli che maggiormente incombono e che potrebbero contribuire a peggiorare ulteriormente il quadro. In primo luogo, la crescita della disoccupazione potrebbe aggravare la crisi della domanda mondiale e indurre un’ulteriore spirale recessiva con una contrazione del Pil più grave di quanto già stimato. Il secondo rischio deriva dall’accumulo dello stock di debito mondiale a causa della riduzione della produzione mondiale e dell’adozione dei diversi piani di stimolo fiscale: un incremento repentino che potrebbe aumentare i rischi di una nuova crisi finanziaria.
A ciò si aggiungono i preoccupanti dati epidemiologici in diverse economie emergenti ma anche nell’Europa occidentale che potrebbero, nel caso di ulteriori misure di contenimento, complicare ulteriormente la congiuntura economica. Vannpo perciò prese con prudenza le incoraggianti previsioni di Deutsche Bank e OCSE, secondo cui il Pil globale ritornerà ai livelli pre-crisi nella prima metà del 2021, con una crescita stimata rispettivamente al 5,6% e 5%. Una rondine non fa primavera.
Ha collaborato Davide Fanciulli