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Balcani

Macedonia del Nord: cambio di rotta in vista

Giorgio Fruscione
08 novembre 2021

Dopo le dimissioni del primo ministro Zoran Zaev, il parlamento macedone esprime una nuova maggioranza trainata dai nazionalisti del VMRO-DPMNE. L’esecutivo a guida socialdemocratica non è ancora ufficialmente caduto, ma non ha più i numeri per governare. Mentre si avvicina la possibilità di nuove elezioni, l’orizzonte dell’integrazione europea di Skopje è sempre più un miraggio.

Responsabilità capitale

Alla fine il leader socialdemocratico Zaev ha mantenuto anche questa promessa. Dopo che il suo SDSM ha perso il ballottaggio per la carica di sindaco della capitale Skopje, ha rassegnato le dimissioni sia da capo del governo – anche se, mentre scriviamo, manca ancora il passaggio di consegne – che da guida del partito, come promesso alla vigilia del voto. Un gesto con il quale si è assunto la totale responsabilità per il pessimo risultato dei socialdemocratici alle elezioni municipali: oltre a Skopje, che al secondo turno ha eletto Danela Arsovska, indipendente ma supportata dal VMRO-DPMNE, l’opposizione si è assicurata 42 sindaci su 88; solo 16 i comuni in cui vince l’SDSM. Un risultato che ha stravolto quello del 2017, quando i nazionalisti vinsero solo cinque municipi, mentre i socialdemocratici conquistarono Skopje al primo turno e si aggiudicarono la maggioranza di 57 consigli comunali.
Numeri che confermano che queste elezioni locali sono state un test per la tenuta di governo. L’indomani dell’annuncio delle dimissioni, i partner della coalizione avevano tentato invano di convincere Zaev a ripensarci. L’esecutivo contava comunque su una maggioranza di 62 seggi su 120 e la coalizione attendeva una nuova nomina per portare a termine la legislatura fino al 2024. Questo almeno fino a venerdì scorso, quando BESA, uno dei principali partiti degli albanesi macedoni e partner del governo Zaev, ha raggiunto un’intesa col leader di VMRO-DPMNE Hristijan Mickoski, spianando così la strada alla crisi di governo. Oltre a BESA, che dalla sua fondazione ha sostenuto tutti gli esecutivi, e all’Alleanza per gli Albanesi, altro partito politico della principale minoranza macedone, la nuova maggioranza conta anche sull’appoggio di Levica, partito di sinistra rappresentato da due deputati.
Il segretario del VMRO-DPMNE Mickoski, a fronte del capovolgimento dell’assemblea e col favore delle urne, ha chiarito i suoi obiettivi: “Proverò a formare un nuovo governo. Questo accadrà solo se sarò sicuro che sia un governo politicamente credibile ed efficace nell’affrontare le sfide che ci attendono. Se ciò non accade, l’unica opzione rimanente sono le elezioni anticipate”.

Fine di un corso

“Ho portato libertà e democrazia, e la democrazia comporta assumersi responsabilità”, aveva dichiarato domenica 31 ottobre dopo il ballottaggio. In una regione in cui la tendenza all’autoritarismo è crescente, il gesto di Zaev ha comunque un riflesso positivo: il potere non è eterno; è giusto fare un passo indietro quando non si riesce a rispettare un obiettivo. E il suo era quello di convincere gli elettori ad andare a votare, non solo per confermare il sindaco di Skopje Petre Shilegov, ma per continuare quel corso riformista iniziato cinque anni fa. Invece, l’affluenza si è fermata sotto il 49%, constatando un ritorno dell’apatia socio-politica in un paese che vede tradite le proprie speranze.
Quando nel 2017 il SDSM formò il primo governo dopo undici anni di autoritarismo del primo ministro Nikola Gruevski, oggi fuggitivo a Budapest, Zaev aveva di fronte a sé un paese da rilanciare. Internamente, eliminando la corruzione, liberando le istituzioni catturate negli anni dalla precedente amministrazione e avviando un lungo processo di riforme. In politica estera, invece, le promesse furono: risolvere la questione del nome, entrare nella NATO e aprire i negoziati per l’ingresso nell’Unione Europea. Un’agenda tutt’altro che semplice. Eppure, a Zaev è riuscito quasi tutto. Nel 2018, l’accordo di Prespa con la Grecia ha risolto uno delle più lunghe dispute bilaterali della storia dei Balcani. E l’adozione del nuovo nome aveva portato, nel 2020, all’ingresso nella NATO. A mancare è stato però l’inizio dei negoziati con l’UE, ma non certo per colpa di Zaev, che se ne è comunque sempre preso la responsabilità. Come a gennaio 2020, quando rassegnò le dimissioni dopo l’ennesimo rinvio dell’apertura dei negoziati voluto dal presidente francese Emanuel Macron. Alle elezioni dello stesso anno, l’elettorato confermò la fiducia all’esecutivo progressista, ma a distanza di pochi mesi questa venne nuovamente tradita: pure in quel caso con un intervento da fuori. Il veto della Bulgaria, che per opportunismo politico riaprì vecchie questioni storiche e culturali, bloccò nuovamente i negoziati, oscurando le prospettive europee di Skopje.
L’esecutivo di Zaev è stato tradito prima di tutto dall’UE, che negli anni non ha saputo ricompensare il riformismo del nuovo corso macedone. Le dimissioni del leader progressista sono però anche un messaggio indiretto alle istituzioni europee: se Bruxelles non è in grado di far fede alle sue promesse e rispettare la propria strategia di allargamento, forse meglio lasciare il posto ad altri. Molto probabilmente, infatti, l’UE in futuro dovrà dialogare con un esecutivo nazionalista e conservatore e che difficilmente cederà sulle diatribe con Sofia.

Addio Unione Europea?

E se l’UE si allontana la colpa principale di Zaev è quella di averci creduto troppo e, di riflesso, aver illuso i cittadini. Probabilmente, l’ex premier paga anche il non aver totalmente smantellato la rete di corruttele e lo state capture che Gruevski gli lasciò in eredità, preferendo i compromessi all’epurazione del sistema.
Quando il governo cadrà ufficialmente, il presidente Stevo Pendarovski guiderà le consultazioni per formare un nuovo esecutivo. I nazionalisti dovrebbero contare su 61 seggi: una maggioranza troppo risicata per scongiurare un voto anticipato prima del 2024.
Nonostante Mickoski abbia già confermato che il suo partito darà seguito al corso europeista della Macedonia del Nord, non è detto che il suo elettorato ponga in primo piano le questioni di politica estera, anche in virtù del rifiuto del nuovo nome.
Dal canto suo, l’Unione Europea perde quello che negli ultimi anni è stato il leader più genuinamente europeista nei Balcani. La credibilità di Bruxelles in Macedonia del Nord era già compromessa, e ora per l’UE si eclissa quasi definitivamente la propria prospettiva di allargamento.

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AUTORI

Giorgio Fruscione
ISPI Research Fellow - Desk Balcani

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