Relativamente piccolo, con i suoi 120.000 kmq stretti tra lo Zambia, il Mozambico e la Tanzania, collocato sullo snodo tra Africa centrale e Africa australe, il Malawi non è abitualmente in cima alle preoccupazioni dei media – e neppure dei cultori della politica africana. Eppure l’esito delle elezioni presidenziali, tenute il 23 giugno scorso dopo un rinvio di tre settimane dovuto al lockdown per il Covid-19 (che nel paese, secondo le cifre ufficiali, ha registrato finora poco meno di un migliaio di casi), era molto atteso. Si trattava infatti del secondo caso, nel continente africano, in cui fosse stata imposta la ripetizione di un’elezione per brogli e irregolarità attribuite al governo in carica.
Nell’unico precedente, avvenuto in Kenya nel 2017, il leader in carica (Uhuru Kenyatta) alla fine aveva comunque prevalso sui suoi oppositori, riconfermandosi in sella. In questo caso, invece, a prevalere è stato il candidato non governativo, Lazarus Chakwera. Sessantacinque anni, padre di quattro figli, sceso in politica nel 2013 dopo una vita spesa come pastore e dirigente del movimento pentecostale (dal 1989 è presidente delle Assemblee di Dio del Malawi), Chakwera ha ottenuto il 59% dei voti in un’elezione a cui ha partecipato il 65% degli oltre 4 milioni di elettori. La sua vittoria sul presidente uscente Peter Mutharika (fermo al 39%), proclamata entro pochi giorni dal voto, è al sicuro da ogni possibile contestazione. Secondo l’ordinamento presidenziale in vigore nel paese, Chakwera governerà ora come capo dello Stato e leader dell’esecutivo, insieme con un’assemblea di fatto monocamerale (il Senato, previsto dalla costituzione per offrire rappresentanza ai leader tradizionali, non è mai stato costituito).
Celebrata dai media di tutto il mondo come un ulteriore passo avanti per la democrazia nel continente, la “resurrezione di Lazzaro”, in realtà, non è arrivata del tutto inattesa. La sentenza della Corte costituzionale che, nel febbraio di quest’anno, aveva accolto il ricorso dell’opposizione e imposto il ritorno alle urne, aveva anche cambiato le regole del gioco, imponendo che il vincitore, per essere proclamato tale, superasse la quota del 50% dei voti (in precedenza bastava ottenere la maggioranza relativa, secondo la tradizione anglosassone del first-past-the-post). La riforma-lampo aveva spianato così la strada alla costituzione di un’alleanza tra le forze che si erano raccolte attorno ai due candidati di opposizione usciti battuti nelle elezioni del 2019: Chakwera, uscito dalle urne con il 35%, e Saulos Chilima, un economista fuoriuscito dal governo Muthakira, che aveva ottenuto il 20% e farà ora parte nel nuovo governo come vice-presidente. Nonostante abbia di fatto mantenuto i propri voti (nel 2019 aveva preso il 38,5%), il presidente uscente nulla ha potuto contro le forze coalizzate dei due rivali.
La sconfitta di Mutharika segna la fine di un’era dominata dalle forze salite al potere con l’avvento della democrazia multipartitica all’inizio degli anni Novanta. Il suo partito, il Democratic Progressive Party (DPP) è l’erede principale di quel United Democratic Front che aveva espresso il primo presidente eletto democraticamente, Bakili Muluzi (1994-2004) e tutti i suoi successori fino ad oggi, da Bingu wa Mutharika (fratello maggiore di Peter) a Joyce Banda. Una classe dirigente che, nonostante una scia di tensioni personali e di scissioni, aveva saputo evitare conflitti civili che mettessero in discussione l’ordinamento democratico, ma non si era dimostrata capace di promuovere le vigorose riforme infrastrutturali di cui il Malawi, uno dei paesi più poveri della regione e per l’80% rurale, ha disperato bisogno per uscire dalla condizione di marginalità economica in cui versa fin dalla sua fondazione.
Salutata come un momento di rottura, la vittoria di Chakwera segna peraltro il ritorno al potere del Malawi Congress Party (MCP), l’antico partito unico al potere durante tutto il lungo regno del padre-padrone e vero fondatore del Malawi moderno, Hastings Kamuzu Banda, iniziato nel 1961, quando l’allora Nyassaland faceva ancora parte di una Federazione centro-africana con le due Rhodesie (gli odierni Zambia e Zimbabwe), e durato fino all’avvento della democrazia nel 1994. Come Banda, membro e anziano della Chiesa presbiteriana di Scozia, anche il neo-presidente ha forti legami con il mondo missionario anglo-americano da cui, fin dai tempi dell’arrivo di David Livingstone al lago Niassa, dipende la formazione dell’élite malawiana. Non è un caso che, come il vecchio presidente-dittatore, anche Chakwera possa vantare una biografia arricchita da diplomi universitari e dottorati honoris causa ottenuti negli Stati Uniti. Ma le analogie dovrebbero finire qui. La lunga permanenza all’opposizione sembra infatti avere purificato l’ex partito unico dai suoi peccati. O almeno questo è ciò che pensano gli elettori, che hanno deciso di affidargli le speranze migliori di un paese densamente popolato, tormentato dall’Aids e privo di sbocchi al mare, che lotta per trovare alternative al prodotto su cui si basa tradizionalmente il suo export – il tabacco, che il cambiamento delle abitudini di consumo nel ricco Occidente rischia di trasformare entro breve tempo in un pessimo affare.