Alle 09.15 del 18 gennaio l’esplosione di un’autobomba all’interno del campo base del MOC (Meccanismo Operativo di Coordinamento) a Gao, capoluogo del nord Mali, causa 77 morti e 115 feriti. Fra di loro il giovane giornalista maliano Souleymane Ag Anara che, appena rimesso dalla ferita alla testa, racconta così la carneficina di cui è stato testimone: “La jeep aveva i colori e lo stemma del MOC. È entrata dal cancello principale senza dare nell’occhio e si è scagliata a tutta velocità verso un gruppo impegnato negli esercizi mattutini. Il campo ospita circa seicento combattenti. L’esplosione è stata tremenda, c’erano pezzi di corpi dilaniati dappertutto. Il campo ha preso fuoco per via delle taniche di benzina appese fuori dal fuoristrada.”
Quello che, al crescere del macabro bilancio della perdita di vite umane, è diventato il più sanguinoso attentato nel paese dal 2012 rappresenta una svolta nella strategia delle formazioni neojihadiste attive nel Sahel. Al-Mourabitoun, violento gruppo legato ad al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI) guidato dal ricercatissimo Mokhtar Belmokhtar – per l’ennesima volta dato per morto e “resuscitato” dopo un raid franco-americano in Libia a fine novembre 2016 – non ha fatto attendere la propria rivendicazione. “Con questa operazione mettiamo in guardia chiunque sia tentato dalla Francia a raggiungere la sua alleanza e riaffermiamo che non permetteremo l’istallazione di caserme e di posti di comando né l’utilizzo di pattuglie e convogli appartenenti all’occupante francese per combattere i mujaiddin o frenare i musulmani” si legge nel proclama apparso su Al Andalus, organo di stampa ufficiale jihadista. Dopo In Amenas (Algeria, 16 gennaio 2013), Bamako (7 marzo 2015 e 20 novembre 2015), Ouagadougou (Burkina Faso, 15 gennaio 2016) e Grand Bassam (Costa d’Avorio, 13 marzo 2016) un altro massacro firmato Belmokhtar, sedicente “Emiro del Sahel”.
Questa volta, però, il target non è né il turismo né la convivenza fra occidentali ed élite africane. Non è il dispositivo antiterrorismo francese nella regione, la cosiddetta forza Barkhane, e neanche la Minusma, la missione delle Nazioni Unite in Mali, la più pericolosa operazione di peacekeeping nella storia dell’ONU con un’ottantina di caschi blu rimasti uccisi dall’inizio del mandato (2014), di cui più di 30 nell’ultimo anno. E non è nemmeno l’esercito maliano che dalla guerra del 2013 cerca invano di riguadagnare terreno e fiducia delle popolazioni settentrionali. Questa volta l’obbiettivo è la neonata forza di pattugliamento del nord, il MOC, voluta dagli Accordi di Algeri del giugno 2015. Questa forza mista, simbolo del processo di “disarmo, accantonamento e reintegrazione” dei gruppi armati, sulla carta era prevista a 60 giorni dalla firma della pace e invece, a causa di continui ritardi di natura politica, ha atteso oltre un anno e mezzo per vedere la luce. I 77 morti dell’attacco alla base del MOC di Gao sono equamente ripartiti fra i combattenti della CMA (il Coordinamento dei Movimenti dell’Azawad), di GATIA (Gruppo di Autodifesa Tuareg Imghad e Alleati, anima della Piattaforma delle milizie di autodifesa filogovernative) e i soldati delle forze armate maliane (FAMA).
Anche nella tempistica traspare il rinnovato spirito destabilizzatore dei gruppi legati ad Aqmi. L’attentato di Gao, infatti, cade a soli quattro giorni dalla chiusura del Summit Africa-Francia tenuto dal 13 al 15 gennaio in una Bamako blindata e ripulita per l’occasione. François Hollande, padrino della conferenza che ha ospitato una trentina di capi di stato africani, prima di recarsi nella capitale ha fatto scalo a Gao per salutare i propri soldati e dimostrare politicamente la ritrovata sicurezza nel paese. Sicurezza puntualmente rimessa in discussione dalla scoperta delle forze speciali francesi in azione nel nord del Mali di piani d’attacco al Summit e dall’arresto a Bamako, da parte dei servizi segreti maliani, di due jihadisti di Al Mourabitoun pronti ad assaltare la capitale il 26 gennaio scorso.
Tali avvenimenti dimostrano che la rinnovata volontà di colpire le forze miste di pattugliamento non sostituisce il consueto modus operandi di Aqmi ma si aggiunge alla guerriglia asimmetrica di questo gruppo terrorista. È un tentativo di minare alle fondamenta il difficile processo di pace in corso che, qualora fosse portato a termine, potrebbe danneggiare sensibilmente le operazioni regionali dei jihadisti con base nel centro e nel nord del Mali. Una strategia a medio termine che pare stia dando i frutti sperati (come ad esempio le 13 vittime dell’attacco del 21 gennaio da parte di elementi della CMA a un posto di blocco di GATIA a Tinessako, nella regione di Kidal ancora in mano a gruppi ribelli e alleati jihadisti).
Dopo mesi di dialogo ciclicamente interrotto da violazioni del cessate-il-fuoco, come gli scontri fra CMA e GATIA fra giugno e settembre 2016, e ciclicamente ritessuto dai negoziatori, le scaramucce fra diversi gruppi armati presenti nel nord danno segnali di ripresa. Alla base di tali scontri, oltre all’antica rivalità fra tuareg Imaghad (GATIA) e Ifoghas (componente maggioritaria di Ansar Addin oltre che dell’HCUA, l’Alto consiglio per l’unità dell’Azawad, principale alleato jihadista in seno alla CMA) si cela il controllo dei traffici di droga, armi e migranti in transito per il nord del Mali e il dominio dei territori disertati dal potere centrale. Combattenti di GATIA sono stati segnalati di ritorno dal sud dell’Algeria e dalla Libia da dove gestivano i traffici per contrastare il rafforzamento della CMA a Kidal. L’arresto a Gao il 24 gennaio di quattro sospetti terroristi legati all’attentato alla base del MOC, fra cui un figlio di Baba Ould Cheikh e tre membri della famiglia di Cherif Ould Taher, entrambi noti baroni maliani della cocaina, prova una volta di più i consolidati legami saheliani fra neojihadismo e narcotraffico.
Nel frattempo a Taudeni, zona a nord di Timbuctu dove regna Aqmi, nell’ultimo mese è stata segnalata l’amputazione delle mani a due presunti ladri, mentre la casa a Kidal di Iyad Ag Ghaly, figura di spicco del jihadismo saheliano e leader del gruppo tuareg Ansar Addin, è stata perquisita dalle forze francesi per la prima volta dalla guerra del 2013 lo scorso 28 gennaio. Esecuzioni, violenze, estorsioni e rapimenti a carico d’informatori, collaboratori ed emissari del governo sono all’ordine del giorno nel nord e centro Mali, come documentato da un rapporto di Human Rights Watch pubblicato proprio il 18 gennaio.
Anche nella scelta del “martire” da sacrificare, l’attentato di Gao conferma il recente tentativo di Aqmi d’etnicizzare il conflitto in Mali. Il giovane Abd al-Hadi al-Foulani, la cui foto con turbante bianco, giacca mimetica, sguardo ispirato e kalashnikov accompagna la rivendicazione di al-Mourabitoun, era un maliano di origine peul (o “fulani”, come ribadito dall’esplicito nome di battaglia). I peul sono un’etnia marginalizzata che, a causa di recenti episodi di arresti ed esecuzioni sommarie perpetrate dalle forze armate maliane, ha formato diverse milizie di autodifesa sempre più vicine ai gruppi jihadisti. Grazie all’appoggio di tali sigle il Fronte di Liberazione di Macina (o Ansar Addin-Sud), guidato dal predicatore peul Amadou Kouffa, negli ultimi mesi si è radicato nelle regioni centrali del paese firmando diversi attacchi.
Per cercare di far fronte alla crescente recrudescenza delle antiche divisioni fra etnie, fra ribelli e governo e in seno agli stessi gruppi armati, il presidente del Mali Ibrahim Boubacar Keita ha ultimamente annunciato l’avvio di un dialogo nazionale che dovrebbe cominciare nel mese di marzo. Ma, come sottolinea l’analista maliano Ibrahim Maiga in un recente rapporto dell’Institute for Security Studies di Dakar, la pletora di formazioni che continuano a nascere per beneficiare dei privilegi economici dell’accantonamento rischia d’incrementare la frammentazione sociale, gli scontri di potere e il peso politico di gruppuscoli ben poco rappresentativi delle istanze locali. A fare le spese di questo quadro critico, come in ogni guerra, sono le popolazioni civili alla mercé di un conflitto sempre più violento, profondo e dimenticato.