Domenica 29 luglio 8,5 milioni di elettori del Mali sono stati chiamati a decidere se concedere un secondo mandato al presidente uscente Ibrahim Boubacar Keita, detto IBK. Nonostante l’imponente dispositivo di sicurezza messo in campo per scongiurare incidenti dalla Missione di stabilizzazione dell’Onu in Mali (Minusma) e dalle forze dell’ordine maliane (oltre 60mila agenti supplementari dispiegati), l’affluenza alle urne è stata scarsa (i dati ufficiali verranno pubblicati nei prossimi giorni) e alcuni attacchi terroristici nelle regioni centro-settentrionali di Mopti e Timbuctu hanno impedito a circa 700 seggi elettorali (su 22.325 totali, cioè circa il 3%, ossia 350.000 cittadini votanti che non hanno potuto esercitare il proprio diritto di scelta) di funzionare correttamente. Smorzato l’entusiasmo che aveva accompagnato IBK al potere nel 2013, il paese saheliano si ritrova oggi impantanato nella peggior crisi della propria storia, sempre più stretto nella morsa del conflitto nel centro-nord contro i jihadisti del Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (GSIM) e le estreme conseguenze sulla condizione umanitaria dei suoi abitanti.
Durante la campagna elettorale appena conclusa tutti i programmi dei 24 pretendenti a Koulouba, la collina di Bamako dove risiede il palazzo presidenziale, hanno toccato le grandi questioni dell’attualità maliana: conflitto, frattura socio-economica e politica, disoccupazione giovanile. Nessuno di essi, però, propone concrete soluzioni futuribili o formule alternative allo scivolamento del paese nel baratro di un conflitto diventato cronico. La Minusma, in Mali dal 2014, e i soldati francesi della missione saheliana Barkhane continuano ad essere, in ampie zone centro-settentrionali del paese, l’unica autorità che contrasta quella dei gruppi armati, jihadisti e non. Gli accordi di pace firmati ad Algeri fra maggio e giugno 2015 fra governo e sigle indipendentiste del nord restano carta straccia per effetto delle incessanti dispute sul controllo del territorio fra milizie pro e contro il potere centrale, oltre ai ritardi e la corruzione nel processo di accantonamento e reinserzione dei ribelli del nord. La tanto agognata Force G5 Sahel – un battaglione multinazionale che contro i terroristi dovrebbe impiegare 5000 soldati dei paesi del G5 Sahel, Mauritania, Mali, Niger, Burkina Faso e Ciad – per mancanza di fondi non è ancora completamente operativa nel Liptako-Gourma, zona transfrontaliera fra Mali, Niger e Burkina Faso feudo di trafficanti e forze jihadiste.
A complicare un quadro già scuro, sono arrivate anche le prove di crimini contro i civili perpetrati negli ultimi anni dall’esercito maliano nel centro-nord del paese, recentemente denunciati da Human Rights Watch e Amnesty International: fosse comuni, esecuzioni, violenze e arresti sommari contro decine d’innocenti a causa dell’amalgama fra jihadisti e abitanti chiari di pelle del nord del Mali. Violenze che stanno esacerbando antichi conflitti inter-comunitari attorno alle zone arate e ai cosiddetti “corridoi di pascolo”. Come nel recente caso degli scontri fra pastori semi-nomadi d’etnia peul e agricoltori sedentari dogon (e, in misura minore, bambara) nel centro del paese. Negli ultimi mesi – cioè dall’inizio dell’hivernage, stagione di lavoro nei campi e transumanza delle greggi di animali – questi distinti gruppi etnici si sono affrontati a colpi di armi automatiche, che circolano indisturbate nell’area. Nella sola regione centrale di Mopti, dove negli ultimi anni è attiva Ansar Addin Sud (costola a maggioranza peul di Al Qaeda nel Maghreb Islamico), da gennaio le vittime degli scontri inter-comunitari sono più di trecento, oltre 20mila i nuovi sfollati interni e decine i villaggi dati alle fiamme.
Una tegola che rischia di aggiungersi all’endemico conflitto fra le truppe franco-maliane e i neo-jihadisti del GSIM (sigla che dal 2 marzo 2017 riunisce i principali gruppi qaedisti del Mali), oscillando pericolosamente sulla testa del nuovo dirigente che uscirà dalle urne. I risultati del primo turno delle presidenziali di domenica saranno resi pubblici entro venerdì. Se il primo turno non esprimerà direttamente un vincitore, si tornerà al voto il 12 agosto per il ballottaggio finale fra i due candidati maggioritari. Un periodo di potenziale assenza d’autorità che, secondo alcuni analisti, agiterebbe lo spettro della destabilizzazione da parte dei jihadisti o dei sostenitori del candidato dell’opposizione. Soumaila Cissé, sconfitto al secondo turno nel 2013, e da quel momento leader dell’opposizione, appare come l’unico avversario in grado d’impensierire la rielezione di IBK, data per scontata dalla maggior parte degli osservatori della politica maliana.
Contro il suo primo mandato quinquennale le accuse di nepotismo, sperpero di denaro pubblico e malgoverno negli ultimi mesi si sono inasprite, tanto da parte degli attori politici quanto da quella della gente comune, arrivando ad assumere toni mai raggiunti prima. La polemica scoppiata attorno alla prima visita di IBK durante la campagna elettorale, il 19 luglio (cioè dopo cinque anni dall’arrivo al potere) a Kidal – capoluogo dell’estremo nord del paese ed epicentro del conflitto – è stata seguita, di pochi giorni, dalle dichiarazioni infuocate del portavoce del partito di Soumaila Cissé, l’Unione per la repubblica e la democrazia (URD). In una conferenza stampa a meno di una settimana dal voto, il 23 luglio, Tiébilé Dramé ha dichiarato che l’URD sarebbe in possesso di prove di un tentativo di frode da parte del partito di governo, l’Assembramento per il Mali (RPM), responsabile, secondo il capo della campagna presidenziale di Cissé, Dramé, dell’inserimento di 1.241.574 “elettori fantasma” nelle liste elettorali. Accuse subito rispedite al mittente dal gabinetto di IBK, che accusa Cissé e i suoi di voler istigare i cittadini maliani alla rivolta ancor prima del voto.
Una situazione già tesa e ulteriormente complicata dall’utilizzo di una nuova carta elettorale biometrica prevista dalla revisione della legge elettorale, recentemente votata da maggioranza e opposizione. Un documento che sostituisce la Card Nina (anch’essa biometrica, stampata nel 2013 e di cui sono “spariti” circa 900mila esemplari) e che ha creato diversi problemi in fase di stampa e distribuzione: a una settimana dal voto, secondo fonti ufficiali del governo, erano state consegnate meno del 60% delle nuove carte elettorali. La biometrizzazione dei documenti personali dei cittadini dell’Africa occidentale è prevista dallo statuto costitutivo della Cedeao/Ecowas (la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) e, recentemente, viene supportata e seguita con interesse anche dall’UE – presente in questi giorni in Mali con una missione d’osservazione elettorale guidata da Cécile Kyenge – e dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM). Un progetto di modernizzazione dello Stato civile che coinvolge la maggior parte degli stati dell’Africa occidentale e che sta incontrando non pochi intoppi infrastrutturali.
Da una prospettiva africana, negli ultimi anni il rapporto con l’Europa passa forzatamente dall’interesse tutto occidentale di esternalizzare la sicurezza e il controllo delle frontiere esterne dell’Unione. Il binomio sicurezza-migrazione è diventato un’ossessione europea che fornisce giustificazioni pragmatiche ad alcune ingerenze nella politica interna di paesi sovrani considerati “subalterni”, come quelli africani. Un’intromissione concessa dai governanti locali, annebbiati dalle possibilità di guadagno, e ricompensata dall’Europa attraverso accordi economici bilaterali e fondi UE come il Trust Fund, presentato al Forum della Valletta del novembre 2015 come “Piano Marshall per lo sviluppo dell’Africa” e che invece è sempre più teso al mero controllo dei flussi migratori verso il Mediterraneo centrale.
Per questo e molto altro (il controllo delle risorse minerarie del paese e la strategica centralità geopolitica del Sahel, ad esempio) le elezioni presidenziali in Mali sono osservate con grande interesse ed apprensione, in Africa come in Europa. Affaire à suivre, come scrivono alla fine di ogni articolo i giornali maliani.
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