Dopo il Mali, la Repubblica Centrafricana. La seconda guerra di François Hollande, iniziata il 5 dicembre scorso, continua nell’ombra. La Francia dimostra una volta di più di perseguire una politica interventista nel continente nero, dispiegando migliaia di soldati, mezzi pesanti e aviazione nelle ex-colonie colpite da crisi securitarie. Queste “operazioni umanitarie” sono, in realtà, le ultime carte che l’Eliseo può giocarsi nell’estrema difesa dei privilegi economici della potenza coloniale che era. La concorrenza di Cina, Stati Uniti e altri attori emergenti nello scacchiere geo-politico ed economico regionale (Qatar, Arabia Saudita, India, Sudafrica) hanno eroso, soprattutto negli ultimi anni, l’influenza e la grandeur transalpina in Africa, terra d’importanza strategica per l’approvvigionamento di materie prime (uranio, petrolio, metalli preziosi, legname).
Lo scorso 5 dicembre la Francia, dopo mesi passati a scalpitare, è entrata per l’ottava volta dal 1979 in forze in Repubblica Centrafricana per sedare gli scontri scoppiati fra le bande armate della ex-Séléka, gruppo musulmano legato al presidente Michel Djotodia, e le milizie di autodifesa cristiane “anti-balakas”, vicine all’ex-presidente François Bozizé deposto a marzo dalla Séléka. Solo durante i primi tre giorni di scontri la Croce Rossa Internazionale ha contato 394 (saliti a oltre 600 nei due giorni successivi) corpi senza vita nelle strade della capitale Bangui, dove hanno trovato la morte anche due paracadutisti francesi poco più che ventenni.
Hollande l’Africano, in profonda crisi di consensi, dimostra di seguire in campo internazionale la linea dettata dal suo predecessore Sarkozy. Una Francia che mostra i muscoli, che torna a essere, nonostante le ferme smentite ufficiali, “gendarme de l’Afrique” per rinforzare i legami economici e politici con le ex-colonie e per garantire stabilità e sicurezza alle proprie aziende che operano in loco (come Areva in Centrafrica). Ma fiumi di euro che escono dal budget nazionale per muovere guerra lontano, in tempo di crisi, incendiano polemiche. Nel 2013 la Francia ha speso 1,25 milioni di euro per le “Opex” (le missioni militari all’estero, in gergo), a fronte degli 817 milioni del 2012, battendo così il record del 2011 (1,24 milioni, soprattutto a causa dell’Afghanistan) e degli ultimi dieci anni(1). Quelli in Mali e in Centrafrica sono “interventi” o “operazioni-lampo”, secondo la nar-razione ufficiale, «per scongiurare un massacro(2), perché la Francia confermi di essere la nazione che libera, la nazione che corre in aiuto degli stati amici» come dichiarato da Hollande il 10 dicembre durante una visita speciale a Bangui, di ritorno dal funerale di Nelson Mandela in Sudafrica.
Pur essendo il Mali e il Centrafrica due paesi diversi uniti solo da ricchezza del sottosuolo e infime posizioni ricoperte nell’Indice di Sviluppo Umano, politicamente l’Operazione “Sangaris” (dal nome di una farfalla rossastra tipica del paese) ricorda da vicino l’Operazione Serval, cominciata l’11 gennaio scorso nel nord del Mali. Il modello-Mali, messo a punto a seguito degli interventi armati in Costa d’Avorio e in Libia, viene dunque esportato in Centrafrica: pressione diplomatica e stop degli aiuti a causa dell’insicurezza crescente, costituzione di una forza d’interposizione africana (Afisma in Mali e Misca in CA), legittimazione dell’intervento armato attraverso risoluzione dell’Onu scritta ad hoc dalla Francia e votata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza (Risoluzione 2100 e 2127), intervento armato più circoscritto e veloce possibile(3), trasformazione del contingente africano in missione di peacekeeping Onu, graduale ritiro francese con mantenimento di una base(4) e di un battaglione d’intervento rapido, transizione politica interna attraverso libere e assistite elezioni. Un mix di strong e soft-power che oscilla fra programmi di sviluppo, mera ingerenza e summit internazionali sulla sicurezza dell’Africa.
Negli ultimi mesi, però, il modello-Mali ha cominciato a scricchiolare sotto il peso di violente critiche e avvenimenti. La Francia, osannata fino a ieri dalla popolazione e dall’intera classe politica maliana, comincia a essere attaccata. A Bamako il 27 e 28 novembre si sono viste le prime manifestazioni anti-francesi: donne, giovani e meno giovani hanno marciato per le strade della capitale mostrando striscioni e cartelli contro la politica dell’Eliseo nel paese. Molti slogan scanditi facevano diretto riferimento alla situazione di Kidal.
Lo stesso Ibrahim Boubacar Keïta (IBK), presidente neo-eletto del Mali alle prese con l’ex-golpista Sanogo, agli arresti dal 27 novembre e con tesissimi negoziati di pace con ciò che rimane dell’Mnla (il Movimento nazionale di Liberazione dell’Azawad), lancia chiari segnali d’insofferenza in direzione di “papà-Hollande”. Ospite al summit sulla pace e la sicurezza in Africa organizzato nei salotti di Parigi i primi di dicembre, IBK ha definito “inaccettabile” la situazione nel nord del Mali e ha aggiunto: «Non capisco perché Kidal debba rimanere un’eccezione. […] Oggi i maliani s’interrogano. L’esercito maliano, accantonato in un fortino, non può circolare a Kidal, dove c’è stata un’epurazione etnica. Tutti quelli con la pelle scura hanno dovuto abbandonare la città. Questo non si dice, però».
Non si dice neanche che oggi in questa città-enclave di jihadisti, trafficanti e ribelli tuareg incastonata nel deserto ci sono 350 soldati francesi (più quelli impiegati in operazioni nella regione(5)) e 200 caschi blu della Minusma, oltre ai circa 200 maliani. Da quanto raccontano i pochi abitanti rimasti a Kidal, queste forze non escono dalle proprie basi se non per qualche rapido pattugliamento. Nelle strade sfrecciano indisturbati i pick-up armati con bandiere di questo o quell’altro gruppo. Perfino Iyad Ag Ghaly, noto signore della guerra locale fondatore di Ansar Addin (i “difensori della religione”, gruppo armato vicino ad al-Qaida) e all’origine di diverse ribellioni armate nel nord del Mali, pare essere rientrato in città con la sua milizia personale. Barbuti algerini, mauritani, tunisini ed egiziani sono tornati in circolazione. Ogni tanto, durante i frequenti battibecchi fra esercito maliano e ribelli inturbanati, Serval e Minusma s’interpongono fra i due contendenti, come successo in occasione della visita del primo ministro, il 28 novembre scorso: una manifestazione di donne e giovani tuareg ha preso d’assalto l’aeroporto dove era appena atterrato Oumar Tatam Ly, l’esercito ha reagito sparando sulla gente che lanciava pietre e brandiva bastoni, poco prima che Francia e Onu disperdessero la folla. Due donne sono morte e i vertici politici del Mnla (in continua lotta interna) hanno dichiarato la fine dell’armistizio deciso dagli accordi di Ouagadougou del 18 giugno scorso.
Con gli accordi di pace sul punto di saltare nonostante gli sforzi spesi fin qui, sia il Mnla che l’esecutivo di IBK puntano il dito contro la Francia, vecchio amico di entrambi guidato da interessi che si traducono in politiche ambigue e, a tratti, indecifrabili. In patria, invece, l’indice di gradimento di Monsieur le Président era salito per un attimo a seguito della liberazione dei quattro ostaggi francesi di Arlit, operatori di Areva sequestrati in Niger nel 2010 e trasferiti nel nord del Mali da Aqmi (al-Qaida nel Maghreb Islamico). Entusiasmo smorzato bruscamente dalla scoperta, fatta da Le Monde, del versamento di 23,5 milioni di euro ad Aqmi tramite l’intermediazione di Iyad Ag Ghaly che avrebbe perfino ottenuto per sé la promessa dell’immunità. La liberazione dei quattro d’Arlit e il pagamento del riscatto ad Aqmi precede di soli 4 giorni il sequestro di Ghislaine Dupont e Claude Verlon due inviati francesi di Radio France International, avvenuto proprio a Kidal il 2 novembre scorso, davanti alla casa di un dirigente del Mnla da parte di un gruppo di trafficanti legato ad Aqmi. Quel che è successo il 2 novembre 2013 è cronaca che rimarrà impressa nella memoria collettiva, a Bamako come a Parigi. Il corpo senza vita di due giornalisti riversi nella sabbia, mezz’ora dopo il loro rapimento.
Come si evince dallo stallo dei negoziati di pace in Mali e dalle prime avvisaglie dell’intervento in Centrafrica, la Francia col proprio intervento rischia di radicalizzare antiche fratture interetniche e interreligiose, causando non pochi danni economici, sociali, umanitari e rischiando di cadere nella stessa trappola in cui sono caduti gli Stati Uniti in Afghanistan e Iraq.