Per il regime della Corea del Nord, la ricorrente celebrazione degli anniversari costituisce un'occasione da non mancare per affermare la propria legittimità interna e internazionale. Non è dunque sorprendente che il settantesimo anniversario della fondazione del Partito dei Lavoratori, il 10 ottobre, sia stato celebrato con particolare solennità e con cerimonie che, a detta degli esperti, avrebbero superato in dimensione le precedenti edizioni di tale manifestazione. Il copione è rimasto sostanzialmente immutato: folle oceaniche, la sfilata militare di uno dei maggiori eserciti al mondo, la tipica ostentazione di risorse missilistiche e, come novità, l'apparizione dei droni. A differenza dell'ultima volta, però, il giovane leader Kim Jong-un ha preso la parola con un intervento dai toni patriottici in cui non è mancata la ricorrente retorica anti-americana e anti-sud coreana. Contemporaneamente, non si è verificato né un lancio missilistico né una nuova esplosione nucleare, come alcuni paventavano.
L'evento si è svolto sullo sfondo di una situazione che nella penisola coreana è rimasta in pratica invariata. Dopo settanta anni la Corea rimane un paese diviso, a differenza degli altri grandi stati che avevano subito la partizione, riunificati ormai da decenni.
I rapporti di sicurezza nella penisola continuano a basarsi su un fragile armistizio. Un vero accordo di pace non è neppure in discussione. Sul confine di terra è schierata la maggiore concentrazione di forze armate al mondo, mentre la mai condivisa linea di delimitazione delle acque territoriali continua a costituire il principale potenziale teatro per un poco auspicabile conflitto. Cresce intanto il solco tra un Sud democratico, dove la ricchezza e le capacità industriale e tecnologica si sono sviluppate esponenzialmente, e un Nord in declino su tutti i fronti, la cui sopravvivenza poggia sul mantenimento di una società militarizzata e sull'accumulazione di un poderoso, anche se in parte antiquato, arsenale bellico: questo include una dichiarata potenzialità nucleare, già di gran lunga più pericolosa di quella iraniana.
Gli avi dell'attuale leader avevano mostrato a volte segni di ragionevolezza. Kim Il-sung, padre della dinastia, nei suoi ultimi anni aveva intavolato un dialogo con gli Stati Uniti per evitare un imminente conflitto. Sotto suo figlio Kim Jong-il si era giunti molto vicini, grazie alla "Sunshine policy" dell'allora presidente sudcoreano Kim Dae-jung, ad una normalizzazione intercoreana e a un accordo con l'amministrazione Clinton. Il progetto naufragò con l'avvento dell'amministrazione Bush. A quattro anni dalla sua salita al potere, il nuovo leader Kim Jong-un non ha ancora mostrato segni di propensione al dialogo, anzi appare essere succube dell'establishment partitico/militare che lo circonda, e che sembra spingere il paese in un crescente stato di isolamento. Solo la Cina ha risposto all'invito alla parata con la partecipazione di Liu Yunshan, un dirigente di livello alto del Partito Comunista Cinese. Il fatto che la piccola DPRK abbia il coraggio di tener testa alle potenze mondiali non riscuote più la simpatia neppure nel mondo non allineato. Non può nemmeno più contare sui suoi tradizionali protettori: Cina e Russia votano ormai a favore dell'applicazione delle sanzioni che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU emette contro Pyongyang.
La grande sfilata, che vuole essere una dimostrazione di forza, è in realtà segno di timore e insicurezza, come lo sono spesso le parate militari. In questo caso – da una parte – si tratta di un mezzo di intimidazione, ma soprattutto – dall’altra – di un modo per distogliere l'attenzione dai reali problemi del paese. L'America e il suo alleato sudcoreano sono sinora riusciti a mantenere i nervi saldi di fronte alla retorica di Pyongyang, che ancora insiste con la minaccia di ricorrere all'uso dell'arma nucleare. Pur non escludendo dalle proprie opzioni quella militare, Washington e Seoul continuano a puntare sul rilancio del negoziato esapartito, attualmente sospeso, posto in essere dal 2003 per gestire la crisi nucleare nord coreana. L'Europa è finora rimasta estranea a tale trattativa, ma non può disinteressarsi di un'area così strategica. Non esitò, infatti, a intervenire finanziariamente in occasione della crisi che colpì le economie dell'Asia orientale alla fine degli anni ‘90, e fiancheggiò efficacemente il processo di riavvicinamento intercoreano che prese corpo durante quegli anni. A maggior ragione, oggi la Corea del Sud appartiene al ristretto gruppo dei partner strategici dell'UE, e un vertice Euro-Coreano al più alto livello si è tenuto il mese scorso a Seoul. Con Pyongyang lo spessore dei rapporti non può certamente essere lo stesso. Dopo le esplosioni nucleari nord coreane la cooperazione si limita al settore umanitario. Nel 2000, d’accordo con Seoul, l'Italia fu il primo paese membro dell'Unione Europea a stabilire rapporti diplomatici con la Corea del Nord. Roma rimane un interlocutore credibile su ambedue i lati del 38esimo parallelo e ha titolo e interesse a partecipare in prima linea all'azione che l'Europa dovrà riprendere a favore della soluzione della crisi nucleare, e nella prospettiva di una riunificazione della penisola coreana.
Carlo Trezza, Presidente uscente del Missile Technology Control Regime, già Ambasciatore d'Italia nella Repubblica di Corea.