Marco Ricci ha frequentato il Master in Cooperazione Internazionale dell’ISPI nel 2009-2010. Oggi ha 42 anni e lavora come programme manager a Save the Children UK dopo anni di esperienze per ONG che lavorano in progetti di cooperazione in diverse parti del mondo. Ad oltre dieci anni dalla fine del Master, abbiamo chiesto a Marco circa il suo lavoro attuale, come questo è stato influenzato dalla pandemia e come valuta oggi l’offerta formativa dell’ISPI School.
Lavorando a Save the Children, immagino che questo della pandemia sia stato un periodo particolare per le vostre attività, considerato che a livello globale i bambini hanno risentito molto degli effetti delle chiusure, nonché delle disuguaglianze crescenti…ce ne potrebbe dare un’idea?
È chiaro che tutto il mondo abbia risentito degli effetti della pandemia. In quanto generalmente più vulnerabili degli adulti, i bambini sono stati particolarmente colpiti. Non serve necessariamente pensare ai paesi esteri dove operiamo come ONG però basta pensare a tutti quei bambini che anche in Italia per molti mesi non sono potuti andare a scuola, o incontrare nessuno al di fuori dei membri del proprio nucleo familiare. Questi ultimi due anni sono stati assolutamente straordinari e temo che ne vivremo gli effetti per molto tempo, senza dimenticarci che la pandemia non è ancora finita.
Per parlare del settore della cooperazione, così come tutti i settori, anche il settore della cooperazione internazionale ne ha risentito molto e a diversi livelli. A livello dei bisogni delle popolazioni con le quali lavoriamo, la qualità della vita, il livello di benessere è peggiorato non solo per i bambini ma per tutte le categorie più vulnerabili. A livello operativo, le restrizioni che due anni fa hanno iniziato ad essere adottate gradualmente in tutti i paesi hanno costretto le ONG e tutti gli operatori del settore a rivedere il modo in cui si lavora e a cambiare in corso d’opera la maggior parte dei programmi. A livello finanziario, c’è stato un grosso taglio dei finanziamenti. Penso ad esempio ai fondi stanziati per l’aiuto pubblico dai vari governi che sono stati diminuiti perché chiaramente la pandemia ha cambiato le priorità, e penso anche a quei casi in cui magari la percentuale di fondi paragonata al PIL non è cambiata, ma diminuendo il PIL dei vari paesi, i soldi stanziati alla fine sono notevolmente minori. Alcuni programmi sono stati sospesi per questo motivo.
Il 2022 ha visto l’acuirsi della povertà e della fame in diversi paesi, potrebbe dirci brevemente quali sono i contesti di crisi peggiori e quali sono le cause principali?
Non mi piace fare delle graduatorie. Sono sicuro che per chi ne è coinvolto, la propria crisi è la peggiore. Laddove le condizioni erano già difficili, la situazione è peggiorata. A maggior ragione considerando che spesso parliamo di paesi dove i governi sono già in grande difficoltà. Va da sé dunque che le loro capacità di rispondere alla pandemia e ai suoi effetti non siano state, in generale, le stesse di paesi con più risorse. Le crisi umanitarie in Yemen, Myanmar, Siria, Etiopia, Afghanistan, solo per citarne alcune, sono gravissime. In tutti quei casi, le cause sono i conflitti. Ci sono poi altre situazioni dove le cause sono più legate alla gestione politica come ad esempio in Venezuela e Libano. Senza dimenticare crisi di lunghissima durata che ciclicamente si acuiscono, e penso all’occupazione in Palestina. E questi sono solo alcuni esempi. Ce ne sono tantissimi altri e con altre cause, ad esempio disastri naturali. Eppure, anche in quei casi i comportamenti dell’uomo e politiche adeguate sono cruciali per controllarne gli effetti. Ma povertà, fame e bisogni più in generale non sono peggiorati solo nei paesi lontani. Ora vivo nel Regno Unito, tante famiglie hanno grosse difficoltà anche qui.
Ritiene che la pandemia abbia avuto effetti anche sul vostro modo di lavorare o questo è rimasto immutato?
Sicuramente la pandemia ha avuto effetti significativi. La maggior parte dei programmi si sono dovuti adattare ai cambiamenti che la pandemia ha causato nei vari contesti dove siamo operativi. Nei primi mesi, abbiamo dovuto rivedere il modo in cui si lavorava e le metodologie con le quali venivano portate avanti le attività. Alcuni programmi sono stati cancellati. Solo per fare un esempio, tutte le attività che venivano condotte in presenza sono state prima sospese e poi condotte, quando possibile, in remoto. Mi riferisco ad esempio a tutte quelle attività nelle scuole, attività che venivano condotte nelle comunità o attività di sostegno psicologico. Le restrizioni agli spostamenti e quelle legate al numero di persone che si potevano riunire sono cambiate diverse volte, a seconda di come la diffusione del virus cambiava. Conseguentemente abbiamo dovuto modificare i programmi diverse volte. In certi casi i bisogni e le priorità sono cambiati e dunque molti programmi hanno destinato risorse per materiali e attività di prevenzione e controllo dell’infezione o per adottare nuovi protocolli e continuare con le attività ma contenendo i rischi. Negli ultimi due anni lavoro su programmi sanitari. In tutti i programmi che seguo, abbiamo iniziato a monitorare costantemente la situazione e sviluppare strategie di risposta alla pandemia che poi venivano inclusi nelle attività di routine. In tutti i casi, questo è stato possibile dopo aver concordato con i partner e i finanziatori le modifiche ai programmi. Per esempio, seguo un programma di contrasto alla polmonite in Nigeria. Per tutta la seconda metà del 2020, si è trasformato in un programma a sostegno della risposta alla pandemia del governo nigeriano. Solo con l’inizio del 2021 siamo ritornati alle attività originariamente definite. È stato un grande sforzo. Anche il modo di lavorare a livello dell’organizzazione è cambiato. Personalmente non sono potuto andare in ufficio per più di un anno e mezzo. Sebbene la maggior parte del mio lavoro fosse in remoto anche prima della pandemia, è stato difficile adattarsi, gestire lo stress e mantenere alte le motivazioni. Da gennaio 2020 non è stato possibile viaggiare, spero di riuscire a riprendere il mese prossimo. Anche questo ha modificato le dinamiche di relazione con i colleghi con i quali lavoro, sia in Inghilterra che negli altri paesi. L’organizzazione stessa ha rivisto completamente il modo in cui si lavora. Il modello ibrido è ormai la norma, anche se ci stiamo ancora assestando, e rimarrà come retaggio della pandemia a lungo termine.
Prima di iscriversi alla ISPI School aveva già idee su quello che avrebbe voluto fare in seguito? Ricorda i suoi progetti di allora?
Prima di conoscere l’ISPI, non sapevo bene cosa avrei voluto fare. Avevo sentito parlare del mondo della cooperazione e avevo conosciuto persone che ne facevano parte. Era un settore che m’interessava e incuriosiva, ma non mi era del tutto chiaro cosa volesse dire essere un cooperante di professione. Prima di fare il master ho frequentato qualche sessione della Summer/Winter school. Grazie a quelle lezioni ho però capito che la cooperazione era la strada che mi sarebbe piaciuto percorrere. La scelta di iscriversi al master è stata la logica conseguenza. Mi ha cambiato prospettive e vita.
In che misura pensa che il corso l’abbia poi aiutata nella sua carriera professionale e in particolare per il suo attuale lavoro? Potrebbe fare qualche esempio?
Il corso mi ha fornito le basi per tutto quello che è venuto dopo. Ricordo che in una lezione, un docente ci disse che, finito il master, saremmo stati tra le persone più preparate in assoluto nell’ambito della progettazione. Mi sembrava un po’ un’esagerazione. Sono più di dieci anni che lavoro per ONG, e ho scoperto che non era assolutamente esagerato. Ho incontrato molte persone che sono entrate nella cooperazione senza aver seguito dei corsi professionalizzanti. Tantissime di queste persone sono davvero brave e assolutamente esperte nel loro ambito, ma spesso si approcciano alla progettazione sottostimando le tecniche e senza padronaggiare il flusso logico che dovrebbe sempre essere alla base dell’identificazione e il design dei vari progetti e programmi. Il corso mi ha permesso di sviluppare una forma mentis che ha guidato il mio lavoro in tutti questi anni.
Quindi consiglierebbe il master? Se sì, a chi?
Sì, assolutamente. Lo consiglierei a tutte quelle persone che vogliono avere una carriera nella cooperazione internazionale, sia che abbiano già esperienze o meno.
A cura di Giorgio Fruscione