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Commentary

Medio Oriente: il lungo inverno arabo

19 Dicembre 2012

Né compiute né tradite: le “Primavere arabe” sono un’opera in progresso. Quanto più l’“innamoramento” lascia il posto alle realizzazioni tanto più si manifestano le asperità della transizione e le inevitabili differenze fra paese e paese. Per molti aspetti si è trattato comunque di una svolta irreversibile. I rapporti di forza nei vari livelli della sovranità e della geopolitica non sono e non saranno più quelli ante-2011 anche là dove le vecchie forme di potere resistono a una contestazione che appartiene più o meno allo stesso fenomeno che ha sconvolto il Nord Africa. Le facce nuove possono far pensare a una maggiore incertezza rispetto ai tempi dei Ben Ali e dei Mubarak ma ormai si sa che gli innocui montagnozzi nascondevano altrettanti vulcani. È così che è stata messa alla prova la tenuta di trame che potevano dare l’impressione di una stabilità che era piuttosto immobilismo al servizio di una dipendenza difficile da sopportare. Intanto, smentendo quanto vaticinato da chi si compiaceva che nelle strade non venissero bruciate bandiere con la Stella di Davide, la Palestina è ritornata al centro della scena: i fondamentali sono sempre gli stessi eppure negli ultimi passaggi anche la gestione della questione israelo-palestinese ha risentito dei venti che spirano nel Medio Oriente. 

La ricerca di un “ordine” che normalizzi il “movimento” riguarda anzitutto l’assestamento negli stati che hanno conosciuto un “cambio di regime”. Pressoché ovunque gli istituti sono provvisori e si stanno affinando le regole di una politica che dovrebbe ispirarsi al pluralismo mettendo al bando il regime autocratico. Era inevitabile che trascorso un primo momento di concordia nazionale si aprisse una competizione. Le “Primavere” sono esplose appunto perché le società erano divise e inquiete. La contrapposizione sui temi confessionali ha occupato a torto o a ragione la scena oscurando i temi della libertà, della giustizia e dell’uguaglianza. Le identità hanno uno spicco del tutto speciale in una congiuntura in cui lo stato deve armonizzarsi meglio con la società (una seconda decolonizzazione e insieme una contro-decolonizzazione), ma sui tempi medio-lunghi le riforme e gli allineamenti riguarderanno di più i rapporti di produzione e distribuzione delle ricchezze e gli accessi ai beni materiali e immateriali. In pieno revival islamico, la costruzione della modernità (avvenga essa dall’alto o dal basso) non può non contemplare una qualche rilevanza della religione nella sfera pubblica rendendo poco compatibile la riproposizione del modello occidentalista a memoria dei connotati generazionali e professionali di chi ha dato il “la” all’intero processo.

L’Egitto è per definizione il trait-d’union fra Nord Africa e Machreq. L’impotenza davanti all’operazione “Piombo fuso” di fine 2008 fu il colpo di grazia per il residuo credito di Hosni Mubarak e quando è scoppiata la guerra a Gaza di fine 2012 Mohamed Morsi sapeva di essere obbligato a comportarsi da protagonista. Sia Israele che Hamas hanno messo alla prova il nuovo Egitto. Lo strappo di Hamas si spiega con la certezza di avere le spalle coperte dall’Egitto e Netanyahu voleva saggiare fin dove si sarebbe spinto il governo della Fratellanza Musulmana. Gli Stati Uniti hanno avallato in pieno la mediazione dell’Egitto convocando al Cairo sia gli inviati di Netanyahu che i dirigenti di Hamas per una trattativa che è stata indiretta solo per salvare le forme e i pregiudizi degli uni e degli altri (replicando il precedente per la liberazione del soldato Gilad Shalit). Se il braccio di ferro in atto al Cairo fra Piazza e Palazzo non produrrà rotture irreparabili, l’ascesa dell’Egitto è destinata a incidere in profondità sul futuro del conflitto israelo-palestinese.

Più in generale, l’asse sunnita Egitto-Turchia-Qatar detta legge isolando Teheran, l’arcinemico sia dell’Arabia Saudita che di Israele. L’Arabia Saudita è alla vigilia di una complicata successione dinastica e preferisce tenersi sullo sfondo. In compenso il piccolo Qatar si è sovraesposto e, dopo aver sperimentato in molti scacchieri l’arte della diplomazia, prima in Libia e poi in Siria non si è accontentato del soft power e ha sfoggiato un hard power con gli artigli e aiuti finalizzati non alla conciliazione ma alla guerra. Persino Al Jazeera è stata usata come una clava. Non avendo nessun motivo per confondersi con l’asse sciita Iran-Siria-Hezbollah se non per la comune militanza, Hamas, nata da una costola della Fratellanza Musulmana, ha già effettuato l’opportuna riconversione lasciando il “santuario” di Damasco per Doha e il Cairo e ridimensionando la funzione dell’Iran se non forse per le armi, sulle cui forniture i governi più vicini all’Occidente potrebbero nutrire ancora delle riserve. La sconfitta all’Onu nel voto sulla semi membership dell’Autorità palestinese dopo la mezza sconfitta a Gaza potrebbe essere troppo per la sensibilità di Israele, ma dopo il primo choc potrebbe rivelarsi un bagno di verità e di convenienza ridando un po’ di mordente a quello che dopo tutto è l’interlocutore ufficiale di Israele. Non è detto però che il successo serva veramente a Mahmoud Abbas (Abu Mazen) per ricollocare in Cisgiordania il fulcro della politica palestinese, ora a Gaza attraverso Hamas (salvo una non impossibile ripresa dell’iter per il ricongiungimento che finora Israele e Stati Uniti hanno assurdamente avversato). Quanto al negoziato, solo un impegno diretto di Obama può rilanciarlo nei termini in cui è andato avanti e indietro in questi anni.

La variabile che darà una scossa ulteriore a tutta l’area è l’eventuale (e probabile) fine del regime di Assad. Risolutiva a questo fine potrebbe essere un’intesa fra Turchia e Russia, interessate a creare un sistema di sicurezza in Eurasia tenendo fuori i più collaudati attori occidentali.

Il Commentary fa parte del Dossier Rischio Babele, http://ispinews.ispionline.it/?p=3401

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Medio Oriente Fratellanza Musulmana Primavera Araba Egitto Nord Africa Israele palestina sovranità geopolitica
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