La Primavera araba, partita dalla Tunisia nel 2011 per coinvolgere poi la Libia, l'Egitto, la Siria e lo Yemen, è rimasta inattiva per quasi un decennio, fino al 2019, anno in cui ha scosso altri quattro Paesi che nel 2011 erano restati in disparte: Algeria, Sudan, Libano e Irak. Questa seconda ondata, caratterizzata più o meno dalle stesse modalità di azione collettiva, ha dimostrato che lo spirito della rivolta è ancora assolutamente vivo e che la Primavera araba non è morta. Si tratta di un processo non ancora concluso.
Pur con esiti diversi, gli autocrati hanno dato ai cittadini generose elargizioni (quando disponibili) in cambio della pace politica e dosi sufficienti di repressione per mettere a tacere le ultime voci di dissenso. Le richieste avanzate dai manifestanti per la partecipazione politica, meno corruzione e nepotismo, più giustizia sociale, più posti di lavoro e dignità non sono state mai accolte.
Alla vigilia del 2023, le cause fondamentali della Primavera araba ancora covano sotto la superficie della politica araba. Le politiche statali nella regione MENA continuano a trascurare rivendicazioni sociali, economiche e politiche che potrebbero nuovamente seminare instabilità nella regione. Le rivolte del 2011 hanno prodotto quelle del 2019, che sfoceranno in una nuova ondata di proteste, che potrebbe essere meno silmiya (pacifica) e hadhariya (civica) di quelle del 2011 e del 2019. Gli elementi scatenanti di una potenziale terza ondata sono legati a problematiche socioeconomiche immutabili, a problematiche relative al governo e a problematiche inerenti questioni globali.
Se è vero che la guerra in Ucraina offre ai Paesi ricchi di petrolio e di gas la possibilità di sostenere ancora per un po' le proprie economie inefficienti, è innegabile che il rentier state non è sostenibile e che la carota diventa sempre più piccola. In molti paesi le esigenze di base non sono soddisfatte, i prezzi dei generi alimentari salgono alle stelle e la guerra in Ucraina ha aggravato la crisi della sicurezza alimentare.
Non tutti i paesi sono stati ugualmente danneggiati: Egitto, Libano, Tunisia, Sudan e Yemen sono stati colpiti più duramente di Giordania, Marocco e Algeria. Il Libano importa l'80% del grano dall'Ucraina, la Tunisia il 48% mentre il Sudan importa il 90% del proprio grano dalla Russia. D'altra parte la Giordania importa solo il 17%, il Marocco il 7% e l'Algeria meno del 4%.
Tuttavia, l'insicurezza alimentare affligge la maggioranza dei cittadini in sei dei dieci paesi presi in esame dal Barometro Arabo nel 2021-2022. Una maggioranza che va dal 53% della Libia al 68% in Egitto dichiara di aver esaurito il cibo prima di disporre dei mezzi per acquistarne dell'altro. In nove paesi MENA su dieci, più della metà della popolazione teme di restare senza cibo prima di poterne reperire ancora.
Inoltre, la pandemia di Covid-19 ha ulteriormente danneggiato economie già fragili. I tassi di inflazione si sono attestati sul 6% in Medio Oriente contro il 7,2% nel Nord Africa. Durante il Covid-19 si è registrata una massiccia perdita di posti di lavoro. In Algeria, ad esempio, almeno mezzo milione di persone ha perso il proprio posto di lavoro a causa della pandemia. In Giordania, il 47% degli occupati prima del lockdown (1-5 marzo 2020) era senza lavoro un anno dopo. La maggioranza degli stati arabi non è in grado di offrire posti di lavoro nemmeno a livello locale per via della forte debolezza del settore industriale, del declino dell'agricoltura e della massiccia urbanizzazione che esaspera le disuguaglianze territoriali.
Questo si riflette sulla fiducia dei cittadini nei confronti del governo. La fiducia nelle istituzioni si è erosa nel corso della pandemia, con una percentuale pari solo al 10% in Libia, al 19% in Irak, al 19% in Libano, al 20% in Tunisia e al 33% in Sudan, per citare alcuni esempi tratti dall'ultimo Barometro Arabo. A complicare ulteriormente il quadro, non c'è alcuna transizione intergenerazionale e un'élite anziana si considera e viene percepita da molti come l'ultimo baluardo contro il vuoto politico.
Durante la pandemia di Covid-19, che ha colpito i settori della sanità e dell'istruzione, i cittadini hanno constatato quanto fosse catastrofica la gestione della crisi. A fronte di una spesa ridotta per l'istruzione e la sanità, la spesa per la difesa nella regione è esplosa. Nel 2020, la spesa per la difesa rappresentava il 6,7% del PIL in Algeria, raggiungendo il 9,1% nel 2021, il 6,5% in Kuwait e il 15,5% in Libia.
Infine, anche le questioni globali, come il cambiamento climatico e i suoi effetti sull'acqua, contribuiranno a scatenare la terza ondata. Gli attuali modelli di utilizzo dell'acqua e le conseguenze del cambiamento climatico condurranno a una grave carenza idrica nella regione MENA. A livello mondiale, 12 dei 17 Paesi maggiormente colpiti dallo stress idrico si trovano nella regione MENA: Algeria, Libia, Egitto, Siria, Giordania, Yemen, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Qatar, Bahrain e Oman. In Libia e in Algeria, e non solo, sono scoppiate delle proteste per l'acqua. Il Libano è un altro esempio: la carenza di finanziamenti, di carburante e di rifornimenti ha influito sul pompaggio dell'acqua, riducendo l'accesso all'acqua pulita.
Questi fattori potrebbero portare a un'altra ondata di disordini nei prossimi cinque anni. C'è anche un serio rischio di conflitti intraregionali nel momento in cui i conflitti iniziano ad allargarsi; tutto è collegato e quindi più complicato da risolvere. Anche la rivalità regionale tra Iran, Arabia Saudita, Turchia e Israele deve essere presa in considerazione quando si pensa al futuro dei paesi arabi.