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Focus Mediterraneo Allargato n.13
Medio Oriente: tutte le conseguenze del crollo del petrolio
Eugenio Dacrema
23 maggio 2020

A partire dall’inizio del 2020 il prezzo del petrolio ha subito una drammatica riduzione dovuta principalmente a due fattori: la forte contrazione della domanda causata dalla crisi coronavirus e la “guerra dei prezzi” che ha visto confrontarsi Arabia Saudita e Russia, i due principali esportatori globali di greggio. Il sovrapporsi di tali fattori ha portato a una compressione del valore del petrolio senza precedenti dall’inizio degli anni Novanta, con il Brent che è sceso in più occasioni sotto la soglia dei 20 dollari al barile, e il Western Texas Intermediate (Wti) che alla fine di aprile ha addirittura toccato punte negative (-34 dollari al barile), per poi stabilizzarsi anch’esso poco sopra i 20 dollari.

La forte frenata dei prezzi del greggio arriva al termine di un lungo periodo di stagnazione dovuta alle importanti trasformazioni avvenute nel mercato energetico negli ultimi due decenni e alla frenata della domanda globale causata, ancor prima della crisi Covid-19, da una progressiva diversificazione verso nuove fonti energetiche diverse dal petrolio (soprattutto il gas naturale e, in seconda battuta, le fonti rinnovabili) e alcuni significativi sommovimenti all’interno del quadro geopolitico internazionale. Tra questi, la crescente rivalità politica ed economica tra Cina e Stati Uniti che ha causato, tra l’altro, diversi episodi di guerra commerciale con ricadute significative anche sul prezzo degli idrocarburi.

Al fine di comprendere le possibili future traiettorie del mercato energetico – e le potenziali conseguenze sul piano politico – è necessario quindi analizzare sia i fattori contingenti che hanno portato al recente crollo, sia le dinamiche di lungo periodo che hanno determinato l’andamento dei prezzi del petrolio negli anni precedenti.

 

Background: due decenni di progressiva frammentazione dell’offerta petrolifera

Dal 2000 a oggi il mercato del petrolio si è caratterizzato per una progressiva frammentazione del lato dell’offerta, andata di pari passo, almeno fino al 2015, con il costante aumento dei prezzi. Fino all’inizio degli anni Duemila gran parte dell’offerta – ovvero della capacità di produzione ed esportazione – era in mano a un numero relativamente limitato di paesi esportatori, la maggior parte dei quali riuniti all’interno del cartello Opec. Ciò in passato ha reso tale cartello, e il volere politico dei suoi principali membri (in particolare l’Arabia Saudita, l’unico “swing producer” del mercato), determinanti per definire l’andamento dei prezzi. Questo scenario è andato però via via mutando nelle ultime due decadi, con l’emersione di numerosi nuovi produttori extra-Opec, che hanno portato il cartello a perdere gradualmente influenza sul mercato.

L’emersione di nuovi produttori extra-Opec – come, ad esempio, gli stati esportatori centro-asiatici, il Brasile, e il Canada – si deve soprattutto a due dinamiche convergenti: da una parte, la costante crescita dei prezzi del greggio – rimasti vicini ai 100 dollari al barile fino al 2014 – ha reso profittevole investire in giacimenti un tempo considerati troppo costosi da sviluppare mentre, dall’altra, il graduale progresso tecnologico ha progressivamente abbassato i costi di sviluppo.

Particolarmente determinante in tale scenario è stata negli anni Duemila la messa a punto negli Stati Uniti della tecnologia shale, che ha reso le compagnie locali in grado di estrarre idrocarburi dalle rocce bituminose di cui sono ricchi diversi stati americani. Questa innovazione ha portato negli anni successivi a una vera e propria rivoluzione delle direttrici principali del mercato dell’energia. Mentre, infatti, nei decenni precedenti l’Occidente (in particolare gli Stati Uniti) era stato il principale driver della domanda di petrolio, la trasformazione apportata dalla tecnologia shale ha rapidamente trasformato gli Stati Uniti nei più grandi produttori di greggio al mondo, in grado ben presto di esportare parte della propria produzione e competere direttamente con i membri Opec.

Come prevedibile, ciò ha diametralmente spostato gli equilibri del mercato. Anche grazie a una sostanziale stagnazione dei consumi europei dopo la crisi finanziaria del 2008 (stagnazione dovuta soprattutto alle misure di razionalizzazione e diversificazione dei consumi energetici introdotte dai governi europei nell’ultimo decennio), le potenze emergenti dell’Asia sono ben presto emerse come i nuovi principali driver della domanda di greggio. La Cina è diventata il nuovo principale cliente dei produttori tradizionali, inclusi gli stati Opec e la Russia, rendendo i prezzi petroliferi estremamente sensibili alle fluttuazioni delle economie asiatiche, e in particolare di quella cinese.

Al fine di decelerare la crescita dell’offerta extra-Opec e mettere in difficoltà i nuovi produttori shale americani, all’inizio del 2015 la nuova leadership saudita guidata da re Salman e dal figlio prediletto Mohammed bin Salman decise di usare la capacità di swing producer del paese per innalzare significativamente la produzione e comprimere i prezzi (che fino a pochi mesi prima avevano fluttuato ampiamente sopra i 100 dollari al barile). Riyadh contava infatti che prezzi significativamente più contenuti avrebbero reso la produzione shale e quelle di altri produttori come Brasile e Canada non più profittevoli, spingendole fuori dal mercato.

Tale operazione si rivelò però un parziale fallimento: se, da una parte, le società energetiche internazionali abbandonarono effettivamente diversi investimenti in nuovi giacimenti extra-Opec, dall’altra l’industria shale si rivelò più resiliente del previsto, potendo contare tra l’altro su grande flessibilità e accesso a capitali all’interno del sistema finanziario statunitense.

Ciò ha portato nel 2015 e 2016 a una contrazione dei prezzi superiore al previsto – con picchi sotto i 30 dollari al barile – che ha messo l’Arabia Saudita e gli altri produttori tradizionali, come la Russia, di fronte alla necessità di riportare i prezzi a salire in modo da poter pareggiare i propri bilanci. Per la prima volta l’Opec si è ritrovato nella situazione di non poter più controllare un livello sufficiente dell’offerta tale da determinare una forte risalita del prezzo.

È stata quindi la presa d’atto del ridimensionamento del potere del cartello a portare nel 2017 al suo allargamento, con l’inclusione di numerosi produttori extra-Opec, tra cui la Russia, secondo produttore al mondo. La nuova alleanza allargata – denominata Opec+ (si veda Focus Mediterraneo allargato n. 11) – è stata quindi inaugurata con un accordo che prevedeva tagli collettivi della produzione, facendo risalire i prezzi. Dal 2017 all’inizio del 2020 tali accordi sono stati costantemente rinnovati e sono riusciti a mantenere i prezzi in modo quasi costante intorno ai 60-70 dollari al barile. 

 

Covid-19, il crollo della domanda e la guerra dei prezzi

Il nuovo equilibrio determinato dagli accordi di Opec+ ha avuto però vita relativamente breve. Il successo di tali accordi si è rivelato infatti fin dall’inizio soltanto parziale, soprattutto dal momento che una percentuale significativa delle quote di mercato lasciate scoperte dai tagli sono state in questi anni occupate dai produttori shale statunitensi, tornati aggressivi sul mercato con la risalita dei prezzi seguita agli accordi Opec+. Ciò ha portato a un crescente malcontento soprattutto all’interno della leadership russa, parte della quale – in particolare quella legata alla Rosneff, la più grande compagnia petrolifera nazionale – ha fatto crescente pressione sul Cremlino perché mettesse fine a Opec+.

Tale pressione è arrivata al proprio apice all’inizio di marzo 2020, quando ha cominciato a emergere in tutta la sua gravità la crisi economica dovuta alla pandemia – e i conseguenti effetti depressivi sui prezzi petroliferi – e da Riyadh hanno iniziato a giungere a Mosca pressanti richieste per ulteriori tagli concordati alla produzione. In questa occasione il Cremlino ha deciso di dare ascolto alle pressioni provenienti dagli ambienti vicino alla Rosneft (la compagnia petrolifera statale russa), che vedevano nel calo dei prezzi generato dalla crisi coronavirus un’occasione irripetibile per spingere quanto più possibile fuori mercato i produttori shale statunitensi. In più, il governo russo stimava di poter tranquillamente sopportare un lungo periodo di prezzi bassi, avendo messo da parte negli anni precedenti sufficienti riserve ed essendo in grado di pareggiare il proprio bilancio anche con prezzi limitati, intorno a 42 dollari al barile (al contrario dell’Arabia Saudita che per pareggiare il proprio bilancio ha bisogno di prezzi vicini agli 80 dollari). Il conseguente rifiuto di Mosca di accettare nuovi tagli concordati ha però generato una reazione inaspettatamente drammatica da parte dell’Arabia Saudita che, invece di lasciare che il mercato si allineasse gradualmente intorno a prezzi più bassi (o procedere a tagli della produzione unilaterali nella speranza di risollevare i prezzi) ha proceduto ad aumentare massicciamente la propria produzione, passando in pochi giorni da poco più di 9 barili al giorno a circa 13.

L’obiettivo saudita era duplice: da una parte costringere Mosca alla trattativa schiacciando i prezzi al di sotto anche dei livelli accettabili per Mosca e, dall’altra, aumentare il volume delle proprie quote di mercato a discapito proprio dei russi e degli altri produttori extra-Opec, comprese le compagnie statunitensi. Riyadh ha in effetti ottenuto alcuni risultati cruciali: in primo luogo, la leadership russa – alle prese sia con un delicato passaggio di riforma costituzionale volta a mantenere Vladimir Putin al potere oltre l’attuale mandato, sia con un significativo aumento dei casi di coronavirus – ha ritenuto di dover tornare indietro sulla propria decisione e accettare un negoziato su nuovi tagli alla produzione; in secondo luogo, l’amministrazione Trump, messo alle strette da parte del settore petrolifero statunitense, ha fatto pressione su Riyadh e Mosca al fine di giungere a un accordo che rialzasse in parte i prezzi.

All’inizio di aprile, quindi, una nuova riunione dei produttori Opec+ ha annunciato il raggiungimento di un nuovo accordo che prevede tagli concordati a partire da giugno per un totale di circa 10 milioni di barili al giorno. Tale decisione è risultata particolarmente umiliante per Mosca: non solo il Cremlino ha dovuto rivedere il suo rifiuto ad accettare nuovi tagli, ma ha anche dovuto firmare un accordo per una riduzione della produzione significativamente maggiore di quella che Riyadh aveva proposto a marzo.

 

La crisi da coronavirus e il rischio shutdown del settore petrolifero

Nonostante l’accordo raggiunto da Opec+ a inizio aprile, a oggi gli effetti concreti dei tagli tardano ad arrivare. Se, da una parte, la discesa dei prezzi si è arrestata intorno a 20-25 dollari al barile, dall’altra la riduzione di produzione concordata dai membri di Opec+ non appare sufficiente a far fronte al drammatico crollo della domanda causata dalla pandemia da coronavirus. Nel frattempo, la extra produzione di questi ultimi mesi ha iniziato a sovraccaricare la capacità di immagazzinamento globale, aprendo a nuovi pericolosi scenari, compresa la possibilità di uno shutdown almeno parziale della produzione globale.

I primi segnali d’allarme sono arrivati a fine aprile, quando all’apertura dell’ultima settimana di contrattazioni sul mercato del Wti, il contratto petrolifero utilizzato in Nord America,[1] i prezzi di listino sono scesi drasticamente, andando addirittura a toccare, per la prima volta nella storia, livelli negativi. Le ragioni di questo evento senza precedenti sono da ricercarsi sia nella forte pressione che la sovrapproduzione di questi mesi sta esercitando sulle capacità globali di immagazzinamento, sia sulle caratteristiche peculiari del contratto Wti. Al contrario del Brent, che tratta petrolio trasportato via mare sulle petroliere, il Wti tratta soprattutto petrolio trasportato attraverso il sistema nordamericano di pipeline. Ciò significa che, mentre il petrolio Brent può essere sia immagazzinato a terra sia lasciato a galleggiare sulle petroliere anche per diversi mesi, il petrolio Wti deve necessariamente essere immagazzinato (in quanto non è tecnicamente possibile lasciarlo “galleggiare” all’interno del sistema di pipeline). Ciò ha portato particolare pressione sui magazzini americani, in particolare quelli della città di Cushing (Oklahoma), dove sono per la maggior parte concentrati. Nell’ultima settimana di aprile – periodo nel quale vengono discussi i contratti di compravendita per il mese di maggio – appariva infatti chiaro che nel mese successivo i magazzini di Cushing avrebbero rischiato il collasso, costringendo i proprietari del greggio a trovare luoghi alternativi dove stoccarlo (con ogni probabilità in cambio di affitti molto alti). Ciò ha portato i detentori dei contratti petroliferi a tentare di venderli a ogni costo prima della chiusura delle contrattazioni, arrivando addirittura a ritenere più conveniente venderli in negativo (ovvero pagando il compratore). La situazione si è in seguito stabilizzata quando le autorità americane si sono impegnate in un significativo ampliamento della capacità di stoccaggio nazionale. La continua sovraproduzione a fronte di una domanda stagnante rischia però di riproporre il problema nei mesi a venire.

Il Brent, da parte sua, è stato finora risparmiato dal rischio saturazione della capacità di immagazzinamento e da rischi di forti sbalzi del prezzo, come è avvenuto per il Wti. Questo per due motivi: in primo luogo il contratto Brent non include esplicitamente, a differenza del Wti, l’obbligo da parte dell’acquirente di far fronte all’immagazzinamento del greggio acquistato, rendendo la posizione del compratore meno problematica; in secondo luogo, la maggior parte del petrolio Brent viene trasportato su petroliere che possono rimanere ancorate indefinitamente in attesa che il prodotto sia scaricabile. Ciò rende lo spazio a disposizione per l’immagazzinamento del greggio Brent estremamente più vasto, esso comprende infatti anche le stive delle petroliere che lo trasportano.

In questi mesi, però, la sovrapproduzione sta mettendo a dura prova anche il mercato del Brent. Gli armatori hanno alzato notevolmente i prezzi per il noleggio delle petroliere mentre si attrezzano per riuscire a costruire nuove navi da trasporto – soprattutto le cosiddette “super-petroliere” in grado di trasportare circa 2 milioni di barili – in tempo per riuscire a imbarcare la sovrapproduzione dei prossimi mesi. Sebbene, quindi, il Brent sia relativamente più protetto da shock come quelli osservati per il Wti, anch’esso non sarà esente da rischi se l’attuale discrepanza tra produzione e domanda dovesse prolungarsi nei prossimi mesi.

Il rischio maggiore in uno scenario di totale saturazione della capacità globale di immagazzinamento sarebbe infatti quello di uno shutdown completo o parziale del settore, ovvero un’interruzione forzata di gran parte della produzione a causa dell’impossibilità di stoccare nuovo prodotto. Ciò avrebbe ovviamente ripercussioni finanziarie molto gravi per le società produttrici e per i bilanci degli stati esportatori. Tali conseguenze, inoltre, risulterebbero distribuite in modo disomogeneo a seconda dei produttori, in relazione alle caratteristiche tecniche dei loro giacimenti. Per i produttori shale, per esempio, una forte riduzione della produzione come quella che sta avvenendo negli ultimi mesi non ha necessariamente implicazioni tecniche gravi (anche se, ovviamente, ne sta avendo dal punto di vista dei mancati introiti) dal momento che i giacimenti shale possono essere facilmente riattivati una volta disattivati. Una situazione simile riguarda i pozzi petroliferi degli stati del Golfo che, essendo relativamente poco profondi, possono essere bloccati e sbloccati senza troppe difficoltà tecniche. Molto diversa è invece la situazione per quei produttori i cui giacimenti sono ad alte profondità. In questo caso, il blocco di un pozzo può comportare elevate problematicità per la sua riattivazione a pieno regime, e in alcuni casi può causarne perfino la chiusura definitiva. È questo il caso, per esempio, dei giacimenti siberiani russi, già messi in pesante difficoltà dai tagli decisi da Opec+ ad aprile.

 

Le conseguenze economiche del crollo dei prezzi

Un crollo dei prezzi del greggio di tale entità è destinato ad avere ricadute molto significative sulla stabilità economica del settore e per gli equilibri politici dei principali paesi esportatori.

Nonostante sia ancora presto per poter apprezzarne pienamente le conseguenze di lungo periodo per il mercato del greggio, e in generale per il settore energetico, è possibile elencare alcuni dei principali trend che hanno già cominciato a delinearsi.

In primo luogo, la ripresa dei prezzi è inevitabilmente destinata a essere estremamente graduale, anche dopo che tutte le principali restrizioni al movimento delle persone e delle merci introdotte a causa del coronavirus saranno state ritirate. Seppure una parziale ripresa della circolazione sia imminente, i consumi non potranno tornare rapidamente ai livelli pre-crisi. È infatti assai probabile che restrizioni di varia intensità dovranno essere applicate almeno fino al 2021 inoltrato, incidendo sulla ripresa della domanda. A questo si aggiunge il freno costituito dalle ingenti riserve accumulate in questo periodo di sovraproduzione. Anche con un ritorno al livello di domanda pre-crisi, è verosimile che per molto tempo il lato dell’offerta si troverà a dover gestire la pressione congiunta sia della produzione corrente, sia del greggio accumulatosi in questi mesi. È quindi da escludere un ritorno ai prezzi pre-crisi nell’immediato, anche se la domanda dovesse tornare ai livelli di fine 2019 in modo relativamente rapido.

Il secondo trend emergente è quello di una progressiva perdita di fiducia degli investitori e delle compagnie energetiche nel settore petrolifero, sia per quanto riguarda il greggio tradizionale sia per quanto riguarda lo shale. La forte volatilità dimostrata dal settore, unita a una prospettiva di prezzi relativamente bassi per un lungo periodo, rendono improbabile un ritorno di interesse per ulteriori investimenti per esplorazione e sviluppo di nuovi pozzi. Le compagnie energetiche sembrano intenzionate a cogliere l’occasione per rivedere il proprio business plan e diversificarlo ulteriormente a favore di altre fonti – comprese le rinnovabili – e a discapito dell’importanza, finora spesso centrale, detenuta dal petrolio. Questo, unito alla crescente sensibilità della comunità internazionale verso il cambiamento climatico, sembra poter favorire in futuro maggiori investimenti in fonti di energia rinnovabili.

Dal punto di vista dello shale americano, Wall Street sembra aver perso fiducia nel settore e sembra averne ridotto l’accesso, un tempo molto favorevole, a nuovi capitali. Ciò potrebbe portare a un parziale ridimensionamento dell’industria shale e a una sua razionalizzazione. I produttori più grandi ed efficienti sembrano destinati a consolidarsi, mentre la miriade di piccole aziende che finora erano riuscite a fare profitti grazie al facile accesso al credito e a prezzi relativamente alti sembrano invece destinate a essere escluse dal mercato.

Infine, è possibile che tale crisi possa anticipare di alcuni anni il declino del settore petrolifero. La lunghezza indefinita delle restrizioni, unita al probabile stabilizzarsi di alcune abitudini che prevedono una riduzione degli spostamenti soprattutto professionali (maggiore smartworking, aumento del teleconferencing, ecc.) potrebbero impedire un ritorno ai livelli di domanda pre-crisi per molto tempo, forse per sempre. Una parte degli osservatori, infatti, ritiene che i livelli di domanda di fine 2019 potrebbero consolidarsi come il picco storico della domanda di greggio, destinata a una stagnazione e a un progressivo declino accelerati dalla crisi coronavirus. Se questa previsione dovesse avverarsi, nei prossimi anni potremmo vedere un sostanziale blocco delle nuove esplorazioni e una produzione accelerata da parte dei maggiori stati esportatori, soprattutto quelli ancora dotati di vaste riserve come l’Arabia Saudita, i quali avrebbero interesse a vendere quanto più greggio possibile prima che perda progressivamente il proprio valore sul mercato in favore di altre fonti.

 

Le conseguenze politiche della contrazione dei prezzi nel breve e medio periodo

Una crisi del settore petrolifero di queste dimensioni è destinata ad avere pesanti ricadute anche sulla stabilità politica di alcuni stati esportatori, soprattutto quelli privi di economie diversificate. A questi effetti diretti si aggiungono anche gli effetti indiretti che una contrazione del settore potrebbe avere anche su quei paesi non direttamente coinvolti nel mercato dell’energia ma che attraverso vari canali attingono parte delle rendite generate negli stati produttori.

Per quanto riguarda gli effetti diretti, la maggior parte dei produttori si appresta ad attraversare un periodo di forte riduzione delle proprie entrate statali. Il contraccolpo di tale riduzione rischia di essere particolarmente drammatico per quei governi che già attraversavano periodi di difficoltà economica prima dell’inizio della pandemia da Covid-19. Produttori come l’Algeria, l’Oman, il Bahrein, il Venezuela, la Nigeria o il Turkmenistan non si sono mai fiscalmente ripresi dal contraccolpo della prima grande riduzione dei prezzi petroliferi del 2015. Molti di essi hanno in questi anni esaurito le proprie riserve finanziarie e in alcuni casi accumulato debito estero. Per tali paesi un’ulteriore forte contrazione dei prezzi rappresenta quindi un aggravato rischio per la loro stabilità socioeconomica e politica.

Altri produttori, come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (Eau) e Russia, hanno invece accumulato negli anni passati ingenti riserve finanziarie e, in alcuni casi, anche un buon accesso al mercato del credito. Almeno per un certo periodo, variabile da paese a paese, ciò dovrebbe metterli al riparo dai contraccolpi più gravi dell’attuale contrazione dei prezzi. Nel caso di alcuni paesi, come Arabia Saudita e Russia, tale buffer potrebbe però rivelarsi insufficiente per far fronte agli effetti congiunti anche della crisi coronavirus, soprattutto se la contrazione dei prezzi dovesse prolungarsi anche all’anno prossimo. Anche se non immediatamente, quindi, sia Mosca sia Riyadh potrebbero però nei prossimi mesi dover ricorrere a misure fiscali di austerità drastiche, con potenziali gravi conseguenze per la stabilità politica dei regimi al potere. A questo proposito, Riyadh avrebbe già attuato un rialzo sostanzioso (+300%) della tassazione indiretta (Vat), introdotta solo due anni fa, mentre Mosca avrebbe archiviato i programmi di aumento del welfare che il governo pensava di attuare in concomitanza con la riforma costituzionale che prolungherà la presidenza di Putin verosimilmente per altri due mandati.

Dal punto di vista degli effetti indiretti, essi sono destinati a propagarsi attraverso almeno due meccanismi: alcuni paesi, come quelli del Golfo, usano da tempo le proprie ingenti rendite petrolifere per proiettare influenza internazionale e sostenere regimi alleati. Nei decenni passati, soprattutto in Medio Oriente, molti regimi locali hanno iniziato a dipendere in maniera più o meno estesa dal sostegno economico del Golfo. È questo il caso di regimi come quello egiziano – la cui attuale leadership è andata al potere nel 2013 grazie anche al sostegno politico e finanziario di Eau e Arabia Saudita – o la monarchia hashemita di Giordania, il cui sistema economico, diventato da tempo insostenibile, è strutturalmente dipendente dal supporto economico di stati alleati, come gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita. Un calo delle capacità di proiezione economica delle monarchie del Golfo potrebbe quindi ripercuotersi negativamente anche sulla stabilità di questi regimi.

La seconda direttrice di propagazione è quella legata alle rimesse dei lavoratori immigrati nei paesi produttori. Quasi tutti i più importanti esportatori mondiali di greggio sono infatti tradizionali mete di emigrazione per paesi più poveri. Nel Golfo vivono circa 20 milioni di migranti provenienti dal resto del mondo arabo e dal sud-est asiatico che ogni anno garantiscono ai propri stati di provenienza preziose fonti di valuta estera sotto forma di rimesse. Per nazioni come, ad esempio, Libano, Giordania ed Egitto la percentuale del Pil generata dalle rimesse degli emigrati all’estero in paesi esportatori di greggio supera ampliamente il 10%. Una parte consistente di tali lavoratori oggi rischia lunghi periodi di disoccupazione e il rimpatrio forzato, andando a incidere sulla stabilità economica e politica dei loro paesi di origine.

 

Le conseguenze politiche di lungo termine della crisi dei prezzi

Nel corso dei decenni passati le rendite petrolifere sono andate a costituire uno degli elementi fondanti degli ecosistemi economici di intere regioni, come il Medio Oriente. La loro drastica riduzione – soprattutto se prolungata nei mesi e anni a venire – è destinata quindi ad avere ripercussioni trasformative in tali regioni, e a mettere in discussione i loro equilibri socioeconomici e politici. Se, quindi, l’attuale crisi dovesse prolungarsi sarà opportuno monitorare gli sviluppi economici e politici soprattutto in quei paesi direttamente o indirettamente dipendenti dalle rendite petrolifere già caratterizzati da un quadro di grande fragilità. Alcuni esempi rilevanti per l’Italia sono alcuni paesi mediterranei con forti legami con il nostro paese come il Libano, l’Algeria e la Giordania.

In generale, inoltre, è bene notare che se tale crisi dovesse davvero configurarsi come un fattore in grado di accelerare il declino del petrolio come fonte energetica, è probabile che nei prossimi anni si assista a una graduale riduzione delle capacità di proiezione economica e politica di alcuni importanti attori internazionali. In Medio Oriente, per esempio, ciò comporterebbe un lento declino dell’influenza – oggi determinante – delle monarchie del Golfo sulla politica regionale e internazionale. Negli ultimi decenni, infatti, paesi come l’Arabia Saudita, gli Eau e il Qatar sono stati in grado di condizionare significativamente gli equilibri del Medio Oriente grazie alla loro capacità di proiezione economica. La diminuzione delle risorse a loro disposizione per tale proiezione sarebbe quindi verosimilmente accompagnata da una riduzione della loro influenza politica esterna e, potenzialmente, potrebbe nel tempo mettere a rischio anche la loro stabilità politica interna.

Lo stesso discorso vale per altri attori internazionali attivi in Medio Oriente come la Russia. Sebbene il sistema russo non sia a rischio di forte instabilità nel breve-medio termine, il costante declino del valore del petrolio andrebbe a intaccare ulteriormente lo stato già compromesso dell’economia del paese e la sua capacità di proiezione esterna, anche nel quadrante mediorientale.

Infine, la contrazione dei prezzi del greggio è sicuramente destinata ad avere un impatto positivo per le economie dei paesi consumatori come l’Italia. È però necessario non illudersi che tale fattore possa rivelarsi determinante nel condizionare l’andamento della crisi economica causata dalla pandemia. Il greggio ha un peso sempre inferiore sul mix energetico di gran parte delle economie avanzate, soprattutto per quanto riguarda la generazione di energia elettrica, che nel tempo ha visto crescere la componente rappresentata dal gas naturale e, a un livello inferiore, dalle energie rinnovabili. In tale quadro, è opportuno che le istituzioni coadiuvino e agevolino un maggiore livello di investimenti delle compagnie nazionali nelle nuove fonti energetiche destinate sicuramente a sostituire il greggio negli anni a venire.

[1] Il Nord America utilizza il Wti, mentre gran parte del resto del mondo, compresa l’Europa utilizza il contratto Brent.

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