Il viaggio del segretario di Stato USA Mike Pompeo in Medio Oriente (8-15 gennaio) era molto atteso, soprattutto tra gli alleati, per diversi motivi: dal nodo Iran alla questione siriana, passando per la lotta al terrorismo e all’islam radicale, ai negoziati di pace tra israeliani e palestinesi, alle politiche energetiche e più in generale all’approccio che Washington vorrà tenere nei prossimi anni nella regione. Un viaggio reso ancora più necessario dopo la fuoriuscita forzata dell’ex segretario alla Difesa James Mattis, il quale si era dimesso dall’incarico dopo l’annuncio del presidente Donald Trump di voler ritirare il contingente USA dalla Siria (2000 soldati di stanza nell’est del paese), in ragione del raggiungimento dell’obiettivo primario di Washington nel teatro di crisi, ossia la presunta sconfitta dello Stato islamico.
La missione di Pompeo in Medio Oriente (con visite in Giordania, Iraq, Egitto, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Arabia Saudita, Oman, e Kuwait) si è prefigurata fin da subito come complessa e articolata, soprattutto in virtù degli incontri paralleli in funzione anti-iraniana tenuti da John Bolton, Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, in Israele e Turchia, e di David Hale, sottosegretario di Stato USA, in Libano. Nelle intenzioni dell’amministrazione Trump le visite di stato puntavano a riaffermare non solo le priorità di Washington nell’area MENA, ma anche il suo impegno condiviso con gli alleati per garantire pace e stabilità nella regione.
Nell’incontrare i massimi rappresentanti dei governi mediorientali, Pompeo ha rimarcato fin da subito il netto distacco tra l’esperienza obamiana e il nuovo corso intrapreso da Trump. Una distanza resa ancor più evidente anche dal discorso tenuto dal capo della diplomazia USA alla American University del Cairo, nel quale il segretario di Stato ha tracciato una strada in totale antitesi con quella del precedente inquilino della Casa Bianca: non a caso, l’enfasi è stata posta soprattutto sulla necessità di sicurezza della regione e su una politica estera americana in appoggio alle richieste degli alleati minacciati da più sfide concomitanti su diversi livelli di interazione politica. La scelta è stata criticata anche negli Stati Uniti, dove una parte del Congresso ha stigmatizzato le dichiarazioni di Pompeo nelle quali si sottaceva invece sul ruolo e il valore della promozione della democrazia e il rispetto dei diritti umani e civili in realtà come quelle mediorientali che, come il mediatico caso Khashoggi ha dimostrato, si mostrano ancora estremamente vulnerabili nel raggiungimento di certi obiettivi.
Sebbene non si sia dimostrata sempre coerente e definita, la “dottrina Trump” per il Medio Oriente (definita dalla BBC “Trumplomacy”), rilanciata dal numero 1 di Foggy Bottom, ha come unico obiettivo quello di creare una cesura netta rispetto alla rotta indicata dal presidente Obama, allontanando definitivamente il momento di “vergogna [politica] auto-inflitta” dall’ex inquilino della Casa Bianca per abbracciare “il ruolo rinvigorito […, da] forza del bene dell’America in Medio Oriente”.
Nel celebre intervento all’Università del Cairo, nel giugno 2009, Obama aveva cercato di inaugurare una nuova fase nei rapporti tra Occidente e mondo arabo-islamico dopo l’epoca di George W. Bush, segnata dagli attentati dell’11 settembre 2001 e dalle guerre in Afghanistan e Iraq, aprendo all’Iran e rilanciando la speranza di un accordo di pace in Palestina, al fine di garantire stabilità ed equilibrio tra le principali potenze regionali.
Dieci anni più tardi la musica è cambiata e dalle parti della Casa Bianca si è deciso di accantonare tali progetti, puntando piuttosto a rinforzare alcuni assi diplomatici storici (Israele, Arabia Saudita ed Egitto) e rinnegando la firma del JCPOA tra paesi 5+1 (tra i quali figuravano anche gli Stati Uniti) e Iran: quest’ultimo percepito nuovamente come fattore di instabilità nella regione. In sostanza, in 24 mesi dall’inizio del mandato presidenziale Trump, il nuovo “manifesto” di politica estera americana enunciato al Cairo da Pompeo punta a bollare l’esperienza Obama come un “fallimento strategico” e ad affermare invece la necessità di un “tradizionale ruolo forte degli Stati Uniti in Medio Oriente”. Una prospettiva, questa, resa ancor più ardua dal fatto che Trump e il suo establishment di non possono o vogliono scontentare nessuno degli alleati più importanti sui temi caldi che anche all’interno della comunità mediorientale – Israele in primis – genera più divisioni che unione di intenti e potenzialmente potrebbe dar luogo, nel caso di una loro irrisolutezza nel medio periodo, a nuove frizioni. Parliamo di situazioni ben note che richiamano l’attualità politica, come la distanza sempre più marcata tra hard e soft-liner nei confronti dell’Iran, la difficile ricomposizione intra-araba causata dalla crisi tra il cosiddetto Quartetto arabo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Bahrain) e il Qatar, nonché lo stallo tattico nelle principali crisi politiche (Libano, Bahrain e Striscia di Gaza) e militari (Siria, Yemen e Libia) regionali.
Nonostante la grande eco mediatica sulla stampa occidentale e mediorientale i giudizi complessivi sulla missione sono stati per lo più negativi. Il viaggio mediorientale e l’enunciazione di un reset USA nei confronti degli alleati regionali infatti fanno emergere numerosi dubbi sulla reale visione strategica dell’amministrazione in merito allo sviluppo e alla stabilizzazione della regione. Pur mettendol’accento sull’Iran e sul contrasto al terrorismo, il segretario di Stato non ha accennato ad alcuna strategia, politica o impegno della sua amministrazione per poter raggiungere tali obiettivi. Pertanto saranno molto importanti in tal senso i prossimi mesi per comprendere in quale direzione stia andando, ad esempio, la costituzione del Middle East Strategic Alliance, il patto politico-militare noto anche come “NATO araba” ma più simile ad una riedizione del vecchio “Patto di Baghdad”, concepito dagli Stati Uniti come uno strumento di sicurezza e stabilizzazione regionale.
Dal discorso di Pompeo, sono state inoltre assenti due questioni centrali per la definizione di qualsiasi strategia USA in Medio Oriente: il fattore energetico e le tensioni intra-Golfo, le quali risultano fortemente correlate tra loro. Nel primo caso, il ruolo dello shale gas, che ha permesso un certo grado di indipendenza dalle forniture petrolifere e gasifere mediorientali agli Stati Uniti, e quindi le future politiche energetiche nei confronti dei paesi produttori della regione – i quali sono anche tra i principali alleati mediorientali degli USA – rappresenteranno una sfida ulteriore nei rapporti bi- e multi-laterali di Washington nella regione. A ciò si sommano le esitazioni statunitensi nel cercare di risolvere la crisi intra-Golfo tra Arabia Saudita e Qatar, nonché nell’assumere una posizione forte e chiara nei confronti dell’alleato saudita. Anche in questo caso, una mancata soluzione del contenzioso potrebbe mettere in dubbio qualsiasi architettura di cooperazione regionale, come nel caso del MESA.
Gli incontri di Pompeo hanno infine confermato, dal punto di vista strategico e tattico, più dubbi che certezze. Infatti in questa rinnovata visione di un disimpegno “parziale” degli Stati Uniti dal Medio Oriente emerge comunque una visione sistemica del quadrante regionale (ma più in generale del mondo) basata su un’idea “vecchia” di relazioni diplomatiche bi- e multi-laterali precedenti le Primavere arabe (ad esempio i concetti di “contenimento” e “isolamento” dell’Iran o “America is back”), che però a loro modo hanno cambiato in profondità dall’interno i singoli paesi coinvolti e la regione stessa, nonché i rapporti di forza tra Washington e gli alleati arabo-sunniti. Una visione d’insieme che non tiene conto, infine, della realtà sul campo, che vede Washington marginalizzata nella centralità delle dinamiche mediorientali, soppiantata nel ruolo da altre potenze internazionali in ascesa, seppur con prospettive differenti, come Russia (attore politico-militare) e Cina (attore economico-commerciale), interessate a loro modo a ridefinire equilibri e influenza nel Medio Oriente post-americano.
Al di là degli annunci e della retorica anti-obamiana e anti-iraniana, la strategia trumpiana mostra ancora un forte legame con la tradizione politica americana e rischia di vedere gli Stati Uniti ancora per diversi decenni in Medio Oriente. Tuttavia, se Washington punta a definire nuovi step per articolare una strategia di esteri e di sicurezza nella regione coerente con gli obiettivi dell’amministrazione e dei suoi alleati, dovrà quanto meno cominciare dalla nomina di ambasciatori chiave e diplomatici di alto livello nelle sedi vacanti1, al fine di contribuire ad affrontare efficacemente le maggiori sfide di politica estera mediorientale, pena un’accentuata irrilevanza su uno dei palcoscenici più critici a livello globale.
Note
1. Cinque dei nove paesi visitati durante la missione del segretario di Stato Pompeo non presentano ancora un ambasciatore incaricato. I paesi in questione sono Giordania, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Arabia Saudita e rappresentano realtà cruciali nella strategia regionale americana.
* Una precedente versione dell’articolo è apparsa su La Lettre du Lundi, Edition 40 – 21/01/2019, Groupe d'Études Géopolitiques (GEG)