L’Egitto non è la Turchia. Questo era chiaro sin dall’inizio della transizione egiziana seguita alla caduta di Mubarak. I due paesi hanno storie diverse, nel corso degli anni hanno prodotto un sistema politico-istituzionale differente e, a livello sociale, la percezione dell’Islam da parte della popolazione non è comparabile. Basti pensare che l’Egitto è la culla del pensiero della Fratellanza musulmana, mentre in Turchia un movimento “fratello” o ispirato ai Fratelli non è mai davvero esistito. Ciò nonostante, negli ultimi due anni si sono spesi fiumi d’inchiostro per tentare una comparazione tra l’attuale transizione egiziana e il perseguimento del cosiddetto “modello turco” da parte dei protagonisti della nuova vita politica del Cairo. Gli elementi sembravano esserci tutti: un partito islamico che guidava il governo del paese – seppur all’interno di un quadro istituzionale molto differente, vale a dire di un sistema presidenziale, a fronte di un sistema, quello turco, parlamentare – e, d’altra parte, un sistema che pretendeva di attenersi alle regole imposte dai dettami democratici. Già nei mesi scorsi, in molti avevano messo in discussione la validità dell’accostamento tra Egitto e Turchia, per via della scarsa linearità del progetto politico del presidente Morsi e per i supposti tentativi di islamizzare il paese e far diventare la democrazia una “dittatura della democrazia”, grazie alla forza dei numeri. Con l’ultima crisi politica e l’ultimatum dato ieri dall’Esercito, gran parte degli analisti hanno decretato definitivamente la fine del modello turco per l’Egitto.
Ma una simile lettura degli eventi in corso è davvero corretta? Per rispondere a tale quesito, occorrerebbe dare ancora una volta una definizione di “modello turco”. Quest’ultimo non può essere semplicemente descritto come la combinazione di un partito islamico al potere che, contestualmente, garantisce il normale funzionamento di un sistema democratico. Il modello turco va piuttosto descritto come un processo storico, politico e istituzionale, che è durato per più di trent’anni e che ha visto diversi protagonisti al di là delle forze politiche di matrice islamica. Tra questi, indubbiamente vi è stato l’Esercito. Un esercito che, per mandato costituzionale, è stato sempre il garante della stabilità della Turchia e della difesa dei valori kemalisti, su cui l’odierna Repubblica turca si è fondata. Nel corso degli anni, i militari hanno imposto il loro ordine alla Turchia, intervenendo ogni qualvolta si fosse ritenuto necessario. L’ultima volta è stato nel 1997, quando attraverso il cosiddetto “soft golpe” – di fatto un colpo di stato senza l’intervento diretto dei carri armati – è stato estromesso dal potere il partito islamico di Necmettin Erbakan (il Refah Partisi, Partito del Benessere), che da un anno guidava il paese. Nei decenni precedenti, colpi di stato militari si erano succeduti con cadenza quasi decennale, dando il via nuovamente a una nuova fase di riequilibrio dei poteri interni. Dopo il 1997, lo stesso Islam politico turco si è ricostituito in un qualcosa di diverso e più inclusivo, dando vita all’attuale AKP e abbandonando l’etichetta di “islamico”, per divenire “conservatore” (sebbene i critici dell’AKP non siano d’accordo con questa catalogazione).
Cosa accade in Egitto oggi? Il braccio di ferro tra i Fratelli musulmani guidati da Morsi e l’Esercito sembra, a dire il vero, la ripetizione di quelle dinamiche che, per anni, hanno caratterizzato il lungo processo di democratizzazione della Turchia. L’intervento dei militari nella vita pubblica e politica del paese inaugura un nuovo braccio di ferro tra politica e militari, i cui esiti appaiono incerti, ma che denotano una situazione di tensione tra queste due forze del paese. A ben vedere, infatti, la vera sfida non sembra essere quella tra Fratellanza e opposizione, ma tra la Fratellanza e l’Esercito. Il quale, in pieno “stile turco”, ha dato al governo un ultimatum per risolvere la situazione di tensione venutasi a creare. In ballo non vi è solo il controllo dello spazio pubblico, ma la stabilità egiziana e la possibilità che la transizione prosegua il suo corso, seppure tra gli innumerevoli ostacoli che si presentano lungo il suo percorso. È in questo senso che si può dire che non vi sia niente di più simile al “modello turco”: un paese nel pieno di un processo di transizione – non necessariamente “democratica”, ma pur sempre una transizione –, con un’influente élite militare che, sicuramente mossa anche da interessi propri, interviene per stabilire l’ordine, e una serie di movimenti e partiti d’ispirazione islamica e non che si contendono la leadership politica. Si tratta di un lungo processo di adattamento dei partiti politici al nuovo contesto da un lato e, dall’altro, di garanzia della stabilità da parte dell’Esercito.
La transizione egiziana, come tutte le transizioni, sarà sicuramente lunga e ricca di incognite, così come la Turchia ha dovuto attraversare decenni d’instabilità e interventi dei militari per giungere all’attuale situazione politico-istituzionale. Ciò non vuol dire che alla fine si arriverà ad avere un sistema più democratico, né che la Fratellanza e i militari troveranno un compromesso per convivere e accettare le regole democratiche. Allo stesso tempo, però, l’Egitto sembra essere entrato in una fase di assestamento e bilanciamento dei poteri interni, che sicuramente ha caratterizzato il cosiddetto “modello turco” e senza la quale la transizione turca sarebbe stata impossibile.