La concezione del pensiero strategico iraniano, ormai alla sua terza evoluzione dalla rivoluzione che nel 1979 provocò la caduta della monarchia e l’inizio della Repubblica Islamica, ha sempre poggiato su un pilastro concettuale immutabile nel tempo; la minaccia regionale rappresenta la prima e più concreta forma di pericolo per gli interessi politici ed economici iraniani e deve conseguentemente essere fronteggiata con l’adozione di un’adeguata e credibile strategia.
L’Iraq di Saddam Hussein e l’Afghanistan – prima sotto occupazione russa e poi terra di conquista tra Mujahedin e Taliban – hanno per oltre vent’anni rappresentato la principale forma di minaccia per l’Iran, in conseguenza anche di un conflitto durato otto anni con il primo e di una costante tensione di quasi trent’anni con il secondo.
Mentre per la minaccia globale il pensiero strategico iraniano ha subito un’evoluzione transitata dalla concezione dello strumento militare convenzionale verso quello asimmetrico, per la minaccia regionale il percorso è stato più articolato e complesso.
L’iter di questa evoluzione è stato ampiamente favorito dalla caduta di Saddam Hussein e dei Taliban – ironia della sorte, per mano di uno dei principali attori della minaccia globale percepita dall’Iran – e dal contestuale mutamento dei rapporti con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, imponendo alla Repubblica Islamica una rivisitazione complessiva delle proprie strategie difensive.
Storicamente, l’Iran ha sempre percepito se stesso come un corpo estraneo nella regione, in larga parte circondato da paesi arabi dominati da élite sunnite poco inclini a riconoscere alcun ruolo all’unico paese non arabo e a guida sciita della regione.
In epoca monarchica gli equilibri di forza si sono sempre retti sui due pilastri della potenza militare e dell’alleanza con le principali potenze mondiali, stabilendo con i vicini una non belligeranza costruita sul timore dell’Iran più che sulla comunanza di interessi. Con la caduta dei Pahlavi e la fine del rapporto con gli Stati Uniti venne confermata in breve tempo la bontà della concezione strategica iraniana, quando un attacco sferrato dall’Iraq e sostenuto da quasi tutti i paesi della regione impegnò militarmente l’Iran per otto anni.
Durante i primi dieci anni di storia della Repubblica Islamica, quindi, Teheran fu costretta da un lato a investire pesantemente sugli armamenti tradizionali – sviluppando una consistente capacità autoctona di produzione, in conseguenza dell’embargo internazionale – e dall’altro a mantenere un profilo politico estremamente cauto nei confronti degli altri attori regionali e globali, nell’ottica di impedire un allargamento del conflitto.
Tutto queste venne tuttavia ribaltato dai fatti dell’11 settembre del 2001 e dalla successiva campagna militare degli Stati Uniti nella regione. Con la trasformazione dell’Iraq in un alleato e con l’Afghanistan occupato dalle truppe straniere e non più capace di porre una concreta minaccia, l’Iran ha avviato un processo di trasformazione della sua politica estera e di sicurezza costruito da un lato sulla ripresa del dialogo con la comunità internazionale e dall’altro sul consolidamento dei propri interessi nella regione del Golfo Persico.
Questo atteggiamento ha tuttavia allarmato profondamente la gran parte delle monarchie arabe, che vedendo nel mutamento di indirizzo della politica iraniana un tentativo di riscoperta del proprio ruolo egemone ed espansivo, lo hanno fronteggiato con una politica di crescente ostilità e chiusura.
La conflittualità latente con l’Arabia Saudita e con alcuni degli Emirati che compongono gli Eau ha portato in breve tempo allo scoppio di crisi regionali di ampia portata, come quella siriana e quella più recente nello Yemen, determinando una frattura insanabile tra Teheran, Riyadh e Abu Dhabi.
Ciò che divide profondamente l’Iran dai suoi dirimpettai del Golfo, tuttavia, è la concezione del modello politico. Mentre Teheran, pur con tutti i suoi limiti ed eccessi, è espressione del modello bottom up, partecipativo e sociale, Riyadh è espressione del più rigido modello top down, verticista ed elitario. Mentre quindi in Iran – sebbene nell’ambito di un sistema fortemente controllato dalle istituzioni – la società viene costantemente chiamata a partecipare al processo di selezione politica e al rinnovamento delle istituzioni, in Arabia Saudita e negli Emirati il sistema dinastico di controllo del regno non ammette intrusioni e innovazioni di sorta.
Ciò che spaventa quindi oggi le monarchie del Golfo non è la potenza militare di Teheran o la sua capacità di proiezione balistica, quanto la fisionomia del suo sistema politico e del rapporto tra questo e la società, che rischia di propagarsi a macchia d’olio potenzialmente innescando una mortale minaccia per gli assolutismi.
Dal canto suo, Teheran, forte degli equilibri costruiti grazie al successo del processo negoziale con i paesi del 5+1, non ritiene oggi granché pericolosa la capacità offensiva delle monarchie del Golfo e, anzi, ne teme in alcuni casi il collasso sotto il peso della crisi economica e della difficile transizione generazionale del sistema politico.
Nicola Pedde, Institute for Global Studies