All’indomani del tentativo di insediamento a Tripoli del governo di unità nazionale guidato dal premier incaricato Fayez al-Sarraj, sembra concretizzarsi l’ipotesi di un intervento militare che veda l’Italia tra gli attori principali, se non addirittura alla guida formale della coalizione internazionale composta, tra gli altri, da Stati Uniti, Francia e Regno Unito.
Ma la missione internazionale in Libia, denominata LIAM - Lybian International Assistance Mission, una volta schierata sul campo dovrebbe confrontarsi, anche con la forza, con differenti gruppi di opposizione armata, oltre 140 milizie, e con la succursale locale in franchising dello Stato islamico (IS/Daesh). Un confronto tutt’altro che rassicurante dal momento che almeno una parte delle fazioni non propense a cedere parte del potere e dell’autonomia conquistati sono ben armate ed equipaggiate; armamenti ed equipaggiamenti, in parte provenienti dagli arsenali fuori controllo del vecchio regime di Gheddafi e, in parte, tuttora forniti dai supporter esterni alle formazioni affini e alleate. E chi ha le armi comanda, o pretende di farlo.
Un recente report delle Nazioni Unite (sottoposto all’attenzione del Consiglio di Sicurezza già nel mese di gennaio) ha rivelato come in realtà, in violazione dell’embargo internazionale adottato nei confronti dei due governi libici (Tobruk e Tripoli) e degli altri gruppi non statali, alcuni paesi, società e soggetti privati abbiano venduto armi ed equipaggiamenti militari alle parti in conflitto. Tra questi, due gruppi statunitensi, altri di Emirati Arabi Uniti, Turchia, Egitto, Giordania, Sudan e Ucraina, e anche un elemento italiano.
Armi ed equipaggiamenti che avrebbero rafforzato entrambi i governi e le milizie armate a questi collegate. E se da un lato, l’Egitto avrebbe fornito al governo di Tobruk elicotteri d’attacco, dall’altro, la Turchia avrebbe inviato via nave armamenti leggeri di produzione nazionale (aziende “Torun Arms” e “Yavex”) alle milizie di Tripoli. Così anche la compagnia emiratina “Morrison Commodities”, verosimilmente in cooperazione con la “Saudi International Military Services”; e vi sarebbe inoltre evidenza di almeno un acquisto di armamenti da parte di un’altra società emiratina, la “Mutlaq Technology”, in particolare di mitragliatrici pesanti, fucili e razzi contro-carro prodotti dalla Corea del Nord, per un controvalore di circa cento milioni di dollari. Non poco, se si considera il già ampio parco di armamenti, appartenuto all’esercito di Gheddafi, e ora a disposizione delle fazioni e dei gruppi che si combattono per la conquista del potere.
Nuovi lotti di armi ed equipaggiamenti, dunque, sono entrati in Libia, per lo più attraverso le rotte commerciali marittime. Prevale il principio del “weapons for oil”, armi in cambio di petrolio, ma è stata verificata anche la distrazione di contanti dalla Libyan Central Bank in favore di gruppi di opposizione armata, alcuni dei quali inseriti nella black-list dei gruppi terroristi, come Ansar al-Sharia; in particolare risulterebbero trasferimenti di ingenti somme di denaro (sei milioni di dinari libici, equivalenti a 4,2 milioni di euro) a favore del Benghazi Revolutionaries Shura Council, legato proprio ad Ansar al-Sharia.
E se il traffico di armi a favore dei due principali contendenti libici può preoccupare, maggiore preoccupazione desta il proliferare di armi tra i gruppi di opposizione armata a questi legati, ma anche le tante milizie tribali e locali e, ancora, i gruppi che combattono sotto il vessillo dello Stato islamico in Libia. Armamenti, in parte già presenti e in parte in fase di afflusso, di cui si perderà traccia e che rimarranno sul mercato nero delle armi per molti decenni o che hanno già preso la via di altri conflitti regionali, dal Mali alla Siria, o sono nella disponibilità di gruppi criminali, cartelli della droga, terroristi.
Ma di preciso, di quali armamenti ed equipaggiamenti dispongono i miliziani del califfo e gli altri gruppi armati con cui la coalizione internazionale dovrà confrontarsi una volta avviata l’operazione militare sul terreno? E ancora, quale pericolo per le truppe che prenderanno parte alla missione internazionale che l’Italia potrebbe a breve guidare in Libia?
Le armi delle milizie sono una minaccia per la missione internazionale
Gli stock di armi in possesso delle milizie e dei gruppi di opposizione armata operativi in Libia sono consistenti e rappresentano una minaccia potenziale valutata, nel complesso, come significativa, in particolare per quelle truppe straniere che potranno essere impegnate nella missione LIAM a supporto del governo libico.
La prima e principale categoria di armi, in termini quantitativi, è quella delle armi leggere – fucili, bombe a mano, razzi lancia-granate (rocket-propelled grenades – RPG) – di cui vi è abbondanza tra i gruppi armati e le organizzazioni criminali. Sono le armi principalmente utilizzate in azioni ‘mordi e fuggi’, attacchi mirati, terrorismo, ma anche per tenere sotto controllo le popolazioni e aree territoriali. La disponibilità è nell’ordine delle decine di migliaia di pezzi.
Una seconda tipologia di arma ampiamente utilizzata è quella degli esplosivi militari. Al contrario di quelli ottenibili attraverso la lavorazione di fertilizzanti e altri componenti reperibili sul libero mercato, quelli militari sono stabili, compatti e ad alto potere dirompente; per queste ragioni sono ampiamente utilizzati per atti di terrorismo, distruzione di obiettivi e per la costruzione di ordigni esplosivi improvvisati (improvised explosive devices - IED), di veicoli bomba e degli equipaggiamenti per attacchi suicidi, ampiamente utilizzati in tutti i contemporanei conflitti asimmetrici. Collegate agli esplosivi militari, e di facile reperibilità, sono le munizioni di artiglieria utilizzate per attacchi che non richiedano precisione o dalle quali, come già in Afghanistan e in Iraq, estrarre l’esplosivo o, in alcuni casi, aggressivi chimici.
Altra tipologia è quella delle cosiddette ‘armi di reparto’, e di ‘accompagnamento’ al combattimento, che richiedono l’impiego di più di un uomo e, in alcuni casi, l’utilizzo di un veicolo di trasporto. Sono le mitragliatrici pesanti (spesso montate artigianalmente sui pick-up di provenienza civile), i lancia-granate automatici, i mortai, i lanciarazzi contro-carro; equipaggiamenti dall’elevata capacità sul campo di battaglia e funzionali alle tecniche e procedure tattiche dei gruppi insurrezionali ma che, per contro, sono ingombranti e richiedono uno sforzo logistico non indifferente, sia per il trasporto che per il reperimento di munizioni di differente calibro e in elevata quantità (dato il consumo elevato di munizionamento). A causa di questi fattori, l’utilizzo da parte di gruppi terroristici è limitato; al contrario è ampiamente impiegato da quelle milizie e dai gruppi di opposizione armata insurrezionali che detengono un relativo controllo del territorio. L’ampia diffusione di questi armamenti in Libia conferma un trend già ampiamente registrato in Iraq e, con qualche limitazione, da parte di al-Qa’ida nello Yemen; con le dovute eccezioni connesse all’utilizzo impreciso e non efficace dei mortai a causa della limitata competenza tecnica nell’utilizzo degli stessi.
La preoccupazione maggiore è data dalla disponibilità potenziale di sistemi missilistici contraerei (Manpads – man-portable air defense systems) e armi chimiche. In particolare, il principale pericolo per qualunque forza di intervento che dovesse operare in Libia è rappresentato dalla minaccia diretta ai velivoli, utilizzati per trasferimenti logistici, movimentazione di truppe e condotta di operazioni; una minaccia che è conseguenza dell’ampia disponibilità di sistemi d’arma, maneggevoli e facilmente trasportabili, in grado di abbattere aerei ed elicotteri. E la Libia, dopo il collasso del complesso militare iracheno del 2003, ha il maggior numero di arsenali militari fuori controllo che comprendono sistemi Manpads (la maggior parte dei quali era ubicata nella Libia orientale, verso il confine egiziano); il numero stimato di sistemi d’arma di tipo terra-aria è di almeno 400 tipo SA-7 ‘Grail’ (9K32 Strela-2), una minaccia valutata come significativa. A quelli già presenti in territorio libico vanno poi a sommarsi i sistemi d’arma tecnologicamente più evoluti ed efficaci forniti dopo il 2011 dai supporter esterni ai gruppi e alle milizie.
Infine, anche le armi chimiche sarebbero nella disponibilità di alcuni gruppi – tra questi IS/Daesh – che sarebbero riusciti a mettere le mani su alcuni depositi di armi chimiche ubicati nelle province centrali e del sud. Le sostanze, utilizzabili sia contro le forze locali sia contro i contingenti internazionali, sono il sarin e l’iprite, in grado di provocare danni irreversibili al sistema nervoso, il primo, e danni gravissimi all'apparato respiratorio e all’apparato ematopoietico, la seconda. Non è nota quale sia la quantità di materiale sottratto dagli arsenali abbandonati – che in origine comprendevano circa mille tonnellate di materiale utilizzabile per produrre armi chimiche e 20.000 tonnellate di iprite (sebbene sia probabile che circa il 60 percento dell’arsenale chimico di Gheddafi sia stato distrutto in aderenza alla Chemical Weapons Convention del 2004) –, e quanto ancora sia effettivamente in Libia; alcuni report indicherebbero che una parte degli agenti chimici potrebbe essere stata trasferita nell’area di Misurata mentre una parte sarebbe stata già testata nell’area di Mizda, a sud di Tripoli. La minaccia è valutata come potenzialmente significativa sebbene l’iprite possa avere effetti mortali se impiegata in grandi quantità e attraverso un utilizzo militare supportato da un’adeguata capacità tecnica, che al momento mancherebbe ai gruppi libici non-statali.
Un pericolo reale?
Data una situazione altamente instabile, alimentata dalla competizione tra i gruppi di opposizione armata, sia endogeni sia esogeni, e una presenza di armi ed equipaggiamenti, sul piano operativo è possibile valutare, per le truppe di un’eventuale missione in Libia, un livello di minaccia medio-alto.
In particolare, la presenza di una componente militare straniera svolgerebbe un potere attraente per i soggetti e per i gruppi fortemente ideologizzati e propensi alla condotta di azioni tattiche dall’alto fattore di attenzione e amplificazione mass-mediatica, come gli attacchi suicidi (singoli e autobomba), le azioni combinate di commando suicidi e nuclei di combattimento convenzionale, nonché il tentativo di abbattimento di velivoli.
Claudio Bertolotti, Ph.D, collabora con l’ISPI dal 2014 e con ITSTIME, è analista strategico indipendente per il CeMiSS, docente di 'Analisi d'area', Subject Matter Expert per la NATO e ricercatore italiano per la ‘5+5 Defense Initiative’ presso il CEMRES di Tunisi.