In Italia il dibattito sulla presenza delle forze armate italiane nelle missioni all’estero è polarizzato fra coloro che sostengono il ritiro da tutte o quasi le operazioni in corso e coloro che sostengono la necessità di adempiere agli impegni presi in sede internazionale. Tale polarizzazione rende impraticabile un dibattito informato che, anzitutto, inquadri l’impegno italiano nelle missioni internazionali all’interno di una visione strategica coerente e, in secondo luogo, sia capace di valutare quali sono i teatri e le modalità di intervento del paese.
Da un lato, il ritiro incondizionato da tutti i teatri in cui l’Italia è impegnata è non solo irrealistico ma avrebbe dei costi politici notevoli, a fronte dei quali il preteso risparmio economico derivato dal disimpegno italiano sarebbe esiguo. Dall’altro lato, le istanze deterministiche secondo cui l’Italia deve rispettare gli impegni internazionali chiudono il dibattito prima ancora di poter immaginare di stabilire le priorità dell’Italia in materia di difesa. Il determinismo degli impegni internazionali – come se questi fossero dettati da istituzioni sovranazionali a cui l’Italia non prende parte – assume nel dibattito politico l’aspetto grottesco di una dottrina dell’interventismo non dissimile, ancorché di segno opposto, al pacifismo radicale. In sintesi, gli imperativi secondo cui non si deve mai partecipare a missioni militari o, al contrario, vi si deve prender parte sempre non hanno giovato alle politiche di difesa dell’Italia.
Negli ultimi vent’anni è prevalso l’impegno a partecipare il più possibile – sia in termini di uomini sia nell’assumersi la responsabilità di posizioni di comando – grazie a un fondamentale consenso bipartisan che, salvo rare eccezioni, ha sostenuto tutti i principali interventi militari multilaterali nel quadro Onu, Nato e Ue. La dialettica politica fra centro-destra e centro-sinistra ha infatti riguardato le modalità, le regole di ingaggio e l’approccio del ruolo italiano piuttosto che la decisione sul se partecipare o meno.
Tuttavia, se l’eccesso di presenzialismo e l’assenza di visione strategica (due facce della stessa medaglia) si sono confrontati finora principalmente con un contesto euro-atlantico sufficientemente coeso, a partire dal deterioramento della situazione in Afghanistan e dall’intervento in Libia si apre una fase nuova e più problematica sia per la Nato sia per l’Unione Europea. La crisi di coesione interna e le difficoltà nel condividere un concetto strategico sostanziale comune rischia di complicare i calcoli circa la partecipazione italiana alle missioni internazionali. Negli interventi nei Balcani negli anni ’90, per quanto siano stati gli Stati Uniti a premere gli alleati europei per l’uso della forza, la Nato si presentava sufficientemente coesa per lasciare spazio a un alleato minore come l’Italia a qualche esitazione o margine di manovra.
L’evoluzione dell’intervento in Afghanistan ha complicato e diversificato gli impegni dei singoli alleati sul campo. Il passaggio dal peace-keeping alla contro-insorgenza – a cui gli stessi Stati Uniti sono appro-dati con fatica – comporta un salto concettuale e operativo che pochi alleati hanno seguito. Parlare dell’impegno italiano in Afghanistan oggi come se gli “impegni internazionali” fossero quelli presi a Bonn nel 2002 o pensando che la ricetta dello state-building sul modello bosniaco possa essere sufficiente significa essere del tutto disinteressati a pensare o ripensare il ruolo italiano alla luce di ciò che avviene nel teatro di guerra.
Il caso dell’intervento in Libia ha reso ancor più problematici i calcoli degli alleati. La funambolica politica italiana di fronte alla crisi ne è forse la dimostrazione più evidente. Per la prima volta è stato messo in discussione lo stesso inquadramento della missione nella Nato, per la prima volta non hanno partecipato tutti gli alleati (con degli assenti eccellenti come la Germania), per la prima volta gli Stati Uniti non hanno preso l’iniziativa, per la prima volta non si è pensato alla missione post-conflict, quella più importante e in cui si esplicita il vero obiettivo politico degli alleati.
Le crisi all’orizzonte, dall’instabilità endemica in Libia alla crisi siriana, rischiano di riproporre un contesto privo di indicazioni univoche per un alleato minore come l’Italia. Il parziale declino degli Stati Uniti e lo shift strategico verso l’Asia rende le aspettative sull’impegno americano molto incerte. I paesi europei sono destinati a sentirsi più isolati e a elaborare politiche più autonome. In questo contesto l’assenza di una cultura strategica – oltre che di una visione strategica che delinei le priorità del paese in materia di difesa e sicurezza – è destinato a pesare sulla politica estera italiana molto di più di quanto lo abbia fatto in passato.
Andrea Carati, ISPI Associate Research Fellow
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