Quando le città italiane hanno cominciato a riaprirsi, dopo i durissimi mesi di lockdown e chiusure a singhiozzo, si è scoperto che non erano più le stesse. O forse erano i loro abitanti a essere diversi: parafrasando Oscar Wilde, anche il cambiamento è negli occhi di chi guarda. Ristoranti, bar e locali si sono riversati all’esterno, sui marciapiedi e persino nella sezione carrabile delle strade, al posto dei parcheggi; giovani e anziani si sono lanciati con entusiasmo e imprudenza sulle vie con ogni mezzo a disposizione, dai monopattini alle biciclette con pedalata poco o molto assistita; i parchi si sono riempiti di eventi di ogni sorta, ben più di quanto avvenisse prima, tra lezioni di yoga, incontri politici e vera didattica all’aperto.
Fenomeni simili sono accaduti, con tempi e modalità differenti, in tutte le città europee e del mondo. Del resto, non poteva essere diversamente: la pandemia ha costretto a ripensare le esistenze e ha evidenziato le molte contraddizioni che le affollavano. Lo stesso vale per i sistemi urbani: nuovi modi di muoversi e di concepire lo spazio pubblico sono ormai al centro del dibattito, mentre si rigenerano le città storiche o si ricomincia a progettare nuovi quartieri.
Dal punto di vista urbanistico, ci si è finalmente resi conto della più macroscopica delle inefficienze: automobili che stazionano per il 95% del tempo e che – a fronte di un costo minimo – occupano una porzione decisiva dello spazio pubblico, oggi riconquistato dai dehors e da tentativi di redistribuzione areale più attenti ai pedoni, ai ciclisti, alle donne e ai bambini. Ma è dal punto di vista della mobilità che tutto si trasforma, e si trasformerà: i concetti di mobility on demand e di mobility as a service, uno anglosassone e l’altro europeo, mettono gli utenti al centro della scena.
Fino a pochi anni fa, per valutare l’efficienza di una città in questo ambito bastava valutarne la qualità del trasporto pubblico. Le reti su ferro e gomma costituivano l’unica alternativa all’automobile privata, e bastava impiantarne un numero abbondante per considerarsi efficienti. Poi tutto è cambiato. Il punto di vista ha traslocato dallo sguardo “largo” dell’amministratore pubblico, preposto a pianificare il sistema, a quello “stretto” ed esigente dell’utente, tutto concentrato sulla sua user experience. Grazie all’economia delle piattaforme, i cittadini possono scegliere temporaneamente un’automobile grazie al car sharing, condividerla col pooling, oppure ancora passare dalla bicicletta al monopattino, dal motorino all’automobile (“intermodalità”), senza possedere nessuno di questi mezzi: semplicemente in base al proprio bisogno del momento, alle previsioni del meteo e magari all’umore del giorno.
Sarà dunque tutta in sharing la mobilità del futuro?
Qualcuno vuole ancora possedere un’automobile?
Alcuni consulenti di McKinsey hanno recentemente studiato il fenomeno della co-mobilità nelle sue varie articolazioni, traendo spunti di riflessione molto interessanti per l’avvenire. Stando ai dati del 2019 (non esaustivi) il giro d’affari legato alla sharing mobility ammontava a circa 140 miliardi di dollari americani, una cifra cresciuta enormemente negli ultimi anni e destinata a esplodere ulteriormente. Al di là del dato aggregato, però, illuminante sembra essere la ripartizione tra le varie opzioni. A farla da padrone, per il 90% circa del volume complessivo, è il cosiddetto e-hailing, vale a dire il modello di business di aziende come Uber e Lyft. Il restante 10% è invece costituito dalle altre forme di car sharing e dalla micro-mobilità alternativa. A leggere questi numeri si rimane abbastanza sorpresi: brutte notizie per i taxisti, tanto fumo e niente arrosto per monopattini e biciclette. E invece no: guardando i trend scopriamo che mentre l’e-hailing è triplicato tra 2016 e 2019, i monopattini elettrici (e simili) sono addirittura cresciuti esponenzialmente nello stesso lasso di tempo, lasciando intravvedere una prospettiva di crescita ancora più marcata. Lo afferma lo stesso studio quando passa agli scenari: dopo il 2030 la micro-mobilità in sharing vanterà un volume d’affari maggiore rispetto all’e-hailing.
Ma c’è un convitato di pietra: il robo-taxi, cioè il veicolo a guida autonoma che non ha bisogno del conducente e che – tanto per definire la propria tabella di marcia quanto per i dispositivi di sicurezza – si affida interamente al software e ai dati derivanti dalla connessione alla rete e agli altri veicoli. È il robo-taxi il Sacro Graal della mobilità nel 2021, l’obiettivo a cui tendono disperatamente ricercatori, aziende e investitori. Senza soffermarsi qui sulle profonde implicazioni sociali di un simile sviluppo, con milioni di autisti potenzialmente disoccupati, proseguiamo come gli investigatori: follow the money! I principali investitori in questo settore, nel decennio passato, sono stati venture capital e private equity (72%), aziende dell’high tech (21%), e solo al 4% le grandi industrie automobilistiche. I denari in ricerca e sviluppo – coerentemente con questa composizione di investitori – si sono diretti in primo luogo verso i robo-taxi, poi sull’e-hailing e infine sulla micro-mobilità. Provando a riassumere: ci saranno meno automobili in giro, ma saranno più efficienti e forse autonome, la proprietà sarà condivisa, e saranno premiate le modalità di mobilità alternativa che non hanno bisogno di stalli fisici (forse si era già capito: guardando i marciapiedi invasi da monopattini e biciclette parcheggiate in modo incivile).
Cercasi auto elettrica, o almeno ibrida
L’elettrificazione del mercato automobilistico è ormai un trend consolidato, che la pandemia – con il crollo delle vendite nell’anno 2020 – sembra paradossalmente aver accelerato: avendo aspettato un anno in più per cambiare la propria vettura, le persone operano la scelta con più consapevolezza sull’importanza della sostenibilità, con una rete di ricariche allargata e con notevoli incentivi pubblici di vario tipo (dallo sconto sul prezzo alla possibilità di parcheggiare gratuitamente). I dati di ACEA, l’associazione europea dei costruttori d’auto, sono impressionanti: nel secondo trimestre 2021 le auto elettriche pure hanno raggiunto il 7,5% del mercato, le ibride plug-in l’8,4% e le ibride il 19,3%. Rispetto all’anno precedente la quota di mezzi a benzina scende del 10%, mentre le auto diesel crollano addirittura del 20%. Nei principali Paesi europei l’aumento delle immatricolazioni elettriche sul 2020 si colloca tra il 200% e il 400% per tutte le tipologie di alimentazione. Una rivoluzione.
Ma la rivoluzione non è un pranzo di gala: innanzitutto per ragioni sociali. Come ci fecero chiaramente capire i gilet jaune alla fine del 2018, i costi della transizione ecologica rischiano di scaricarsi in maniera disomogenea, e dunque non “sostenibile”, sui vari livelli sociali. A pagare rischiano di essere proprio coloro che della transizione non vedono i vantaggi: chi non può praticare lo smart working, chi non ha i soldi per una nuova auto, chi svolge un’attività (prima citavamo gli autisti di Uber) destinata a scomparire tra innovazione tecnologica ed e-commerce.
Inoltre, non piccoli sono i problemi infrastrutturali, di smaltimento e di approvvigionamento: le postazioni di ricarica sono ancora insufficienti nelle nostre città – l’Italia è indietro rispetto ai paesi del Nord Europa -, il ciclo delle batterie non ha raggiunto l’efficienza energetica e ambientale desiderata, e negli ultimi mesi, com’è noto, notevoli difficoltà si sono accumulate nel reperimento delle materie prima in svariate filiere industriali.
Come trasformare tutto ciò in un’opportunità?
Utopie concrete nella città post-Covid
Se si vuole davvero riuscire a completare la transizione ecologica delle città, oggi dobbiamo fare in modo di rendere protagoniste le persone comuni, che coi loro comportamenti dovranno diventare attori del cambiamento. Ma per ottenere questo risultato – ed evitare rivolte sociali anti-ecologiche – occorre spiegare alle persone i vantaggi connessi al cambiamento stesso. Anche qui, il post-pandemia può aiutarci. Com’è noto, la Commissione Europea ha indicato la via della de-carbonizzazione come asse principale del proprio impegno già alla fine del 2019, quando fu varato il cosiddetto Green Deal. In questa cornice, tra gli obiettivi veniva tra l’altro indicato quello di 100 città neutrali a livello globale entro il 2030 e di un New European Bauhaus, un grande piano di rigenerazione urbana su scala continentale. Ma i fondi di Next Generation EU, attraverso i vari Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza, forniscono risorse e strumenti, anche normativi, che rendono la transizione ecologica ancora più ambiziosa e, nel contempo, più raggiungibile.
Ad alcune condizioni: immaginare ogni trasformazione come un tassello di un disegno più ampio, in cui la governance deve essere multi-livello, i partner non solo istituzionali ma anche sociali e privati, e in cui le politiche si influenzano orizzontalmente (cross-cutting).
Si provi a fare un esempio italiano, uno dei tanti, tornando all'auto elettrica: la normativa prevede la possibilità di costituire delle “comunità energetiche” (art. 42 bis, Milleproroghe 2020), ovvero dei consorzi tra condòmini all’interno di uno o più palazzi, in modo da ridurre i costi della bolletta elettrica grazie alla distribuzione efficiente dell’energia prodotta coi pannelli solari sia tra gli abitanti dello stesso fabbricato sia all’esterno. In più, esiste il cosiddetto Superbonus 110%, che consente il retrofitting degli edifici pubblici e privati a costo zero per le persone, con l’installazione delle colonnine di ricarica per le automobili oltre a quella dei pannelli solari. Combinando i due strumenti, il cittadino si trasforma in prosumer, cioè in produttore dell’energia che consuma, e risparmia nel corso degli anni senza aver speso neanche un euro. Ma anche l'auto elettrica si trasforma: da semplice mezzo per lo spostamento a strumento di una prospettiva più ampia. Si sa infatti che il problema dell’energia rinnovabile è lo stoccaggio, cioè dove conservare l’energia prodotta. In questa possibile città del futuro, già normata e finanziata, l’autovettura parcheggiata in garage - ricaricabile forse col plug-in anche accanto ai lampioni stradali – sarà anche il sito di stoccaggio dell’energia prodotta dalla propria comunità. Una tessera mobile, per l’appunto, di una città più green, sostenibile e moderna.