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Commentary

Morsi un anno dopo: l'Egitto ancora in piazza Tahrir

17 giugno 2013

Tamarud contro Tagarud. Ribellione contro imparzialità. Non si tratta solo dei nomi di due movimenti antagonisti, gli uni creatori di una petizione per le dimissioni anticipate del presidente egiziano Mohammed Morsi, gli altri sostenitori della prima presidenza islamista nella storia del paese. C’è di più: essi rappresentano due visioni della realtà divergenti e sorde le une alle altre.

Tamarud cammina nel solco della rivolta popolare dei 18 giorni (25 gennaio-11 febbraio 2011), che costrinse alle dimissioni il presidente Hosni Mubarak, per trent’anni faraone d’Egitto e maestro di equilibrismi mediorientali. 

Dallo scorso 26 aprile a oggi, gli attivisti ribelli, con uno slancio autonomo rispetto ai partiti laici e liberali, hanno raccolto 7 milioni di firme di cittadini favorevoli a un rinnovo anticipato della presidenza della Repubblica. E si preparano a superare quota 15 milioni in luglio: se l’obiettivo sarà centrato, si tratterà di un milione di voti in più rispetto a quelli guadagnati da Morsi un anno fa nel rush finale contro Ahmed Shafik (24 giugno 2012).

Tamarud denuncia l’inadeguatezza della nuova classe dirigente: la Fratellanza musulmana e il suo braccio politico Libertà e giustizia paiono aver impiegato il primo anno alla maggioranza per mettere in sicurezza tutte le posizioni di potere nelle istituzioni. Come, se non peggio, i predecessori del Partito nazionale democratico. Fino a confezionare una nuova carta costituzionale in solitudine, lo scorso 29 novembre, quando tutti i membri dell’Assemblea costituente non islamisti avevano ormai disertato il consesso. Dal decreto presidenziale con cui Morsi si è arrogato poteri pressoché assoluti allo scontro diretto con i vertici dell’esercito, dal braccio di ferro con i giudici a quello con giornalisti, attori, artisti, ong locali e internazionali, la Fratellanza ha collezionato una serie di gaffes serrata e difficilmente difendibile di fronte al più spietato dei giudici: l’opinione pubblica. Per mancanza di cultura democratica o fame di rivalsa forse, dopo decenni di clandestinità.

Ma i giovani della cairota piazza Tahrir – è sempre quello l’epicentro dei terremoti egiziani  – peccano anch’essi di miopia: non vedono, infatti, che i partiti che li sostengono (Movimento 6 aprile, Kefaya, Fronte nazionale di salvezza, Associazione nazionale per il cambiamento e altri minori) sono sconosciuti al di fuori della capitale e non possono rappresentare un’alternativa credibile agli islamisti. È vero che i sondaggi attestano un crollo verticale di Mohammed Morsi, passato da un indice di gradimento per il suo operato pari al 78%, dopo i primi cento giorni, al 30% di un mese fa (dati Baseera, Centro di ricerca sull’opinione pubblica egiziano). Tuttavia, se si votasse ora, all’impopolarità degli islamisti farebbe eco quella dell’opposizione, élitaria, divisa e autoreferenziale. Intrappolata nel ritornello del boicottaggio delle elezioni, vent’anni fa come ora.

Sul fronte avversario, i “paladini” dell’imparzialità, in maggioranza islamisti salafiti, denunciano i rivali “estremisti”, intenzionati a «stravolgere la legittimità popolare» (Abdel Maged, partito Costruzione e sviluppo). I moderati, invece, fingono genuine aperture ai rivali riproponendo gli stessi schemi dell’era geologica precedente. Un esempio attuale: l’Etiopia intende costruire una diga sul Nilo Azzurro, c’è il rischio che l’Egitto si trovi letteralmente a secco. Ecco venuto il momento di superare le incomprensioni «per il bene della nazione», tuona ieratico Morsi, mentre il paese  sbiadisce di giorno in giorno. Recita il rapporto della Banca mondiale di fine aprile: tasso di crescita atteso per fine 2013, +2,2% (superava il +7% nel 2009, il +5% nel 2010); disoccupazione, 13% a fine 2012 (9% nel 2010, 12% nel 2011); percentuale di cittadini al di sotto della soglia di povertà 25%, mentre un altro 24% è al limite (21% nel 2009). Quanto al settore trainante, il turismo: -33% in due anni (15 milioni di turisti annui a fine 2010, dati del ministero del Turismo egiziano), per una perdita media di 267 milioni di dollari alla settimana. 

Colpa dell’instabilità politica provocata dai ribelli, sostiene la leadership islamista. Colpa dell’islamizzazione che scoraggia i visitatori, dicono gli avversari. 

Intanto, a due anni e mezzo dalla fine di un mondo e a solo un anno dall’inizio del mandato Morsi (30 giugno 2012), poco o niente sembra cambiato: sotto lo sguardo impassibile della vera sfinge egiziana, l’esercito, altri ribelli e altri imparziali si preparano a riempire le strade del Cairo. 

Federica Zoja, esperta di Nord Africa e Medio Oriente, collaboratrice del quotidiano «Avvenire».

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