Il primo Summit Russia-Africa, tenutosi a Sochi in ottobre, va inquadrato nel contesto della proliferazione di conferenze “paese-continente” che, negli ultimi anni, si sono affermate come format preferenziale con cui gli attori internazionali si relazionano ai paesi africani, alla ricerca di opportunità commerciali e influenze politiche. È infatti con lo sfondo del crescente interesse verso l’Africa da parte di numerosi attori esterni che si possono osservare con chiarezza i punti forti ma (soprattutto) i limiti del Summit di Sochi e, più in generale, delle relazioni russo-africane.
La Russia si allinea: il modello delle conferenze paese-continente
A Sochi, sulle rive russe del Mar Nero, il 23-24 ottobre scorso si è tenuto il primo summit di sempre tra Federazione russa e paesi africani a livello di capi di stato e di governo. Presieduto dal presidente russo Vladimir Putin e dal presidente di turno dell’Unione Africana, l’egiziano Abdel Fattah al-Sisi, ha visto la partecipazione di quarantatré leader africani e più di 3.000 delegati provenienti da tutti i 54 stati africani e dalle principali organizzazioni continentali. Ai margini del summit si sono anche tenuti un forum economico e una serie di incontri bilaterali tra i paesi partecipanti. Non si tratta della prima volta che Mosca manifesta il proprio interesse economico nei confronti del continente africano: oltre ad aver già organizzato numerosi forum economici incentrati sull’Africa, da ultimo una sessione speciale al Forum economico internazionale di San Pietroburgo dello scorso giugno, la Russia è dal 2017 uno degli stakeholder principali dell’Afreximbank, l’istituzione panafricana di finanziamenti al commercio basata al Cairo. Ma è la prima volta che, organizzando un incontro collettivo al più alto livello politico, quello di capi di stato e governo, Mosca si è avvalsa di quel format di conferenze paese-continente che tutte le altre grandi potenze internazionali interessate all’Africa hanno adottato da tempo.
Negli ultimi anni, infatti, queste conferenze sono diventate le principali piattaforme di dialogo utilizzate dagli attori internazionali per negoziare collettivamente con i paesi africani. La Francia fu la prima ad adottare questo modello nel 1973, quando riunì 11 delegazioni africane per il primo Sommet France-Afrique. Successivamente, il summit è stato rinominato “Afrique-France”, mettendo l’Africa al primo posto per enfatizzare la parità nella partnership e l’eguale importanza riconosciuta agli interessi africani e francesi. Due decenni dopo, nel 1993, fu il Giappone a organizzare, congiuntamente con la Banca mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), il Tokyo International Conference on African Development (TICAD). Ma fu il lancio del Forum sulla cooperazione Cina-Africa (FOCAC) nel 2000 a segnare la definitiva consacrazione delle conferenze paese-continente con l’Africa, dando loro grande visibilità e attrazione. Negli anni successivi, infatti, sulla scia cinese, altri attori internazionali (tra cui il Brasile nel 2003, la Corea del Sud nel 2006, l’India e la Turchia nel 2008, l’Italia nel 2016) hanno organizzato questo tipo di conferenze con un format simile, se non identico, variando eventualmente nella scelta della sede (solo alcuni attori alternano le sedi, coinvolgendo anche le capitali africane) e nel livello di partecipazione politica, talvolta ministeriale talvolta con capi di stato e di governo, ma sempre con un occhio di riguardo per i temi del commercio, delle infrastrutture, dell’energia e della sicurezza (raramente democrazia e diritti umani). A seguito della moltiplicazione di queste conferenze, nel 2006 l’Unione Africana incoraggiò i paesi membri a non prendervi più parte, suggerendo invece di adottare un meccanismo (la cosiddetta formula di Banjul, dalla città del Gambia in cui la proposta fu avanzata) basato sulla partecipazione esclusiva di una task force continentale che rappresentasse e difendesse gli interessi africani. La proposta non riscosse successo e, come il caso russo dimostra, si continua oggi con un approccio che, nella bilateralità collettiva del format paese-continente, rischia talvolta di alimentare la percezione dell’Africa come oggetto perlopiù passivo della competizione extra-continentale.
I motivi di Mosca
La Russia è dunque l’ultimo degli attori internazionali a ricorrere alle conferenze paese-continente con l’Africa. Come evidenziato già dal suo titolo e dalla sede ospitante scelta, il summit è stato voluto in primo luogo dalla Russia, sia per rafforzare la propria influenza diplomatica sia per incrementare la propria presenza economico-militare in Africa. Oltre a evidenziare i rapporti di forza, la scelta di Sochi ha un ulteriore valore simbolico: fu quella, infatti, la sede delle Olimpiadi invernali del 2014, ospitate un mese prima dell’annessione russa della Crimea e di quel conseguente isolamento occidentale (tramite sanzioni europee e statunitensi) che ha di fatto spronato la Russia a rilanciare le proprie relazioni con l’Africa, alla ricerca di mercati alternativi e nuovi partner diplomatici di cui avvalersi nei consessi internazionali.
Dal punto di vista russo, i principali obiettivi del summit sono tanto di natura geopolitica quanto economica. Mosca intende anzitutto dimostrare di essere tornata a tutti gli effetti una potenza globale. Per farlo, oltre a esibire una maggiore assertività in Medio Oriente, ha da qualche anno incrementato la propria presenza in Africa, con l’obiettivo di rafforzare non solo se stessa ma anche gli stessi paesi africani nell’ottica di nuovo ordine mondiale multipolare e non più a guida occidentale. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la neonata Federazione russa si era vista costretta a ridimensionare le proprie ambizioni globali, incluse quelle nel continente africano. A partire dagli anni 2000, però, vi è stata una decisa ripresa delle relazioni economiche e politiche tra Russia e Africa, tanto che l’interscambio commerciale è passato dai 3,4 miliardi di dollari del 2005 ai 19,5 del 2018 (un aumento del 470%)[1], e nel corso degli ultimi tre anni una dozzina di capi di stato e di governo africani si sono recati a Mosca in visite ufficiali (visite ricambiate da due viaggi di Putin in Egitto nel 2017 e in Sudafrica nel 2018)[2].
Più che di ritorno, però, sarebbe più corretto parlare di rilancio, in quanto da parte di Mosca non vi è mai stato un completo abbandono, perlomeno in alcuni settori prioritari. Sul piano militare, infatti, dalla fine degli anni ’90 la Russia è stata mediamente il principale fornitore africano di armi e licenze. Per quanto il proprio mercato principale resti la vicina Asia, nel 2000-2018 la Russia ha fornito in media il 36% delle armi importate dai paesi africani[3], più di qualsiasi altro partner extra-continentale.
Fonte: SIPRI
Documenti riservati divulgati negli scorsi mesi da The Guardian confermano la rilevanza della collaborazione militare passata e attuale tra Russia e paesi africani. In Africa, negli ultimi anni, Mosca è riuscita a plasmare una presenza significativa nel settore militare, al di là della sola vendita di armi, soprattutto in alcuni paesi target. Alla vigilia del summit aveva già all’attivo una trentina di accordi militari di vario tipo, 19 dei quali stipulati negli ultimi cinque anni. Tra i paesi prioritari, spiccano quelli del Nord Africa (Algeria, Egitto e Libia) e paesi come Mozambico, Repubblica centrafricana, Sudan e Zimbabwe, in cui la fornitura di armi, l’invio di milizie paramilitari (inclusi mercenari della compagnia militare privata Wagner) o l’interferenza nei processi elettorali hanno giocato un ruolo importante nel sostegno al potere dei leader locali.
Altrettanto prioritaria risulta essere la cooperazione energetica. Anche se spesso si è trattato solo di accordi provvisori, diverse compagnie russe, tra cui Gazprom, Lukoil e Rosatom, sono da tempo attive nel continente, non solo nel settore degli idrocarburi ma anche in quello della produzione di energia nucleare. In una regione, quella subsahariana, dove in media quasi il 60% della popolazione risulta ancora oggi priva di accesso stabile all’elettricità, diversi governi hanno manifestato interesse nelle fonti alternative, inclusa quella nucleare. Ad oggi, però, l’unica centrale nucleare operativa nel continente è quella di Koeberg, poco fuori Città del Capo. Tra gli ostacoli principali allo sviluppo del nucleare civile vi sono la sicurezza e i costi proibitivi, responsabili dell’attuale stallo delle trattative che Rosatom ha avviato con Nigeria (2017) e Sudafrica (2018) rispettivamente per l’avvio e l’ampliamento di programmi nucleari locali. Ciononostante, nei giorni del summit, tanto l’Egitto quanto l’Etiopia e il Rwanda hanno riconfermato accordi preesistenti o raggiunto nuove intese preliminari sul nucleare civile.
Infine, al pari di armi ed energia, anche il settore minerario è da tempo una delle direttrici principali della presenza russa in Africa. Angola, Botswana, Guinea, Namibia, Repubblica centrafricana e Zimbabwe sono solo alcuni dei principali paesi africani in cui compagnie russe sono attive nell’estrazione di diamanti, bauxite, uranio, oro e platino. L’acquisizione di concessioni, soprattutto nello sfruttamento delle risorse minerarie, spesso in cambio di fornitura di materiale militare o di tecnologia e know-how, è dopotutto il modus operandi preferenziale con cui la Russia si è tradizionalmente relazionata con il continente africano.
Uno degli obiettivi economici annunciati dagli organizzatori era quello di ampliare i settori di cooperazione oltre a quelli già consolidati. A questo fine, diversificando il proprio modus operandi, Mosca sembra volersi ritagliare anche in Africa un ruolo di mediatore negli scenari di crisi. La ‘crisis diplomacy’ russa, che tanto sta già facendo parlare di sé in Medio Oriente, presenta infatti molte potenzialità tanto sul fronte degli obiettivi geopolitici russi quanto per quelli economici, dato che offre non solo visibilità e riconoscimento internazionale, qualora l’esito della mediazione sia positivo, ma anche opportunità commerciali nei paesi di intervento. Il recente exploit sul fronte siriano ha incoraggiato Putin a offrire la propria mediazione in scenari di crisi africani, concretizzatasi in incontri bilaterali ai margini del summit tra Etiopia ed Egitto (mediazione offerta anche dagli USA), Rwanda e Sudafrica, e fazioni libiche rivali.
Dal punto di vista dei diversi paesi africani, invece, oltre ad avere il merito di puntare i riflettori su un continente spesso trascurato, le conferenze paese-continente sono viste come opportunità per conquistare sostegno politico internazionale e diversificare investitori e partner commerciali esteri. Nello specifico, la Russia può offrire ai paesi africani sostegno politico in sede di Consiglio di Sicurezza, ad esempio contribuendo alla rimozione delle sanzioni internazionali o al blocco di nuove misure restrittive, come già successo con la Repubblica centrafricana. Ma anche sul fronte economico, a differenza dei paesi occidentali, la Russia è in grado di proporre una relazione priva di precondizioni sul modello del ‘Beijing consensus’ cinese. Altrettanto appetibile per i paesi africani è la carta anticoloniale spesso giocata da Putin sempre in funzione antioccidentale. In quest’ottica di pari dignità e sovranità promossa dalla Russia si può leggere anche la cancellazione dei debiti che diversi paesi africani avevano accumulato durante l’epoca sovietica. Secondo quanto annunciato da Putin alla vigilia del summit, ai 20 miliardi di dollari di debiti cancellati ai paesi africani negli ultimi anni si aggiungeranno a breve anche i 160 milioni di debiti dell’Etiopia.
I risultati del Summit
Nel corso del Summit di Sochi sono stati firmati decine di accordi bilaterali, dall’energia allo sviluppo agricolo, dalle biotecnologie alla cooperazione militare, per un valore complessivo stimato attorno ai 12,5 miliardi di dollari. Nel campo della difesa e della sicurezza, quello più importante anche a detta degli stessi partecipanti africani, la Russia sembra aver consolidato con successo il proprio primato nel continente. L’agenzia russa per l’export militare Rosoboronexport ha infatti dichiarato di avere un portafoglio ordini attuale dai paesi africani di 14 miliardi di dollari, cui si aggiunge il contratto d’acquisto di 12 elicotteri militari russi della Nigeria firmato durante il bilaterale tra Putin e il presidente nigeriano Buhari. Altrettanto significativo è stato, in concomitanza con il summit e nei giorni seguenti, il dispiegamento delle forze dell’aeronautica russa in Sudafrica e in Egitto, rispettivamente per una missione di addestramento e esercitazioni militari congiunte.
Nel settore dell’energia, come già anticipato, si registrano invece l’accordo preliminare raggiunto tra Etiopia e Rosatom per la costruzione di una centrale nucleare e quelli con la Repubblica del Congo e il Marocco per la costruzione di un oleodotto e il finanziamento di una raffineria petrolchimica. Non sono mancate, inoltre, intese circa nuove prospezioni in Guinea Equatoriale, Nigeria, Rwanda e Sud Sudan. A queste si aggiungono anche nuove collaborazioni con le comunità economiche regionali e le camere di commercio locali, così come la promessa di investimenti russi in un meccanismo di sostegno al commercio bilaterale. Con esse la Russia intende duplicare l’attuale valore dell’interscambio commerciale russo-africano nell’arco dei prossimi 4-5 anni, così come era già stato raddoppiato nel corso dei precedenti tre.
L’incremento recente dell’interscambio russo-africano è considerevole se analizzato longitudinalmente: come già evidenziato, in poco meno di 15 anni vi è stata una crescita del 470%, un tasso che il continente non ha registrato con nessun altro partner internazionale. Tuttavia, se confrontati con quelli degli altri competitor internazionali, in primis Unione Europea (303 miliardi di dollari di interscambio nel 2018) e Cina (210 miliardi), i 20 miliardi di dollari attuali dell’interscambio russo-africano subiscono un notevole ridimensionamento. Anche con competitor più avvicinabili come i singoli paesi europei (Francia, Germania, Regno Unito), la Russia rimane decisamente un concorrente modesto.
Fonte: UNCTAD
Sul fronte diplomatico, infine, i tavoli negoziali predisposti ai margini del summit per mediare tra Egitto ed Etiopia, così come tra Rwanda e Sudafrica, hanno giusto contribuito a strappare la promessa dei leader coinvolti di riaprire il dialogo nelle sedi più opportune. Per quanto riguarda Rwanda e Sudafrica, l’incontro, che non ambiva certo a risolvere tensioni di lungo periodo, potrebbe aver facilitato il ritorno dell’ambasciatore sudafricano a Kigali. Per quanto riguarda invece la disputa tra Etiopia ed Egitto sulla Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD), il bilaterale tra Abiy e al-Sisi (cui Putin non ha partecipato) ha contribuito a stemperare la tensione riaccesasi tra i due paesi dopo il fallimento del meeting di Khartoum a inizio ottobre. I due leader hanno però deciso di riprendere le discussioni nei tradizionali format regionali, senza quindi alcuna mediazione esterna.
Quali limiti?
L’incontro di Sochi ha senza dubbio offerto ulteriore visibilità alle ambizioni globali di Mosca. Nel relazionarsi con i paesi africani, la Russia ha un evidente vantaggio comparativo tanto nella cooperazione militare, grazie a una presenza di lunga durata, quanto nel modus operandi privo di precondizioni. Anche il passato sovietico, per alcuni aspetti ingombrante, offre alla Russia non solo i benefici accordati a tutte le altre potenze internazionali non coloniali, ma anche il privilegio di poter godere di rapporti preferenziali con alcuni paesi africani in cui movimenti di liberazione nazionale e loro esponenti sostenuti in passato dall’Unione Sovietica sono attualmente al potere.
Allo stesso modo, però, ha anche manifestato limiti e ostacoli della relazione, non solo se confrontati con quelle di altri attori internazionali. Le ambizioni commerciali di Mosca vedono un primo ostacolo nella stessa economia russa, nello specifico nelle sue dimensioni contenute (ben più limitate rispetto ad altri attori internazionali presenti in Africa) e nella struttura del suo export, complessivamente incentrato su dei beni (idrocarburi e risorse minerarie) rispetto ai quali diversi paesi africani sono addirittura competitor. Questo aspetto, accanto all’enorme squilibrio nell’interscambio (che per l’85% consiste di export russo verso l’Africa, in gran parte armi e grano) non solo addossano la sfida del raddoppio commerciale quasi solamente sulla Russia, ma la rendono ancor più improbabile da vincere in così poco tempo.
A ridimensionare le ambizioni russe in Africa è però anche la natura stessa degli accordi raggiunti durante il summit. Più che la differenza quantitativa rispetto a quelli della Cina a FOCAC 2018, vista l’incomparabilità delle due economie, ciò che è opportuno rimarcare è proprio la natura preliminare della gran parte degli accordi siglati a Sochi. Complici alcuni precedenti russo-africani in cui accordi annunciati in grande stile da compagnie russe si sono rivelati solo inconcludenti dichiarazioni di intenti, è d’obbligo una certa cautela. Così come tutta da verificare è l’effettiva capacità di Mosca di diversificare una relazione che da decenni è incentrata solo su poche aree prioritarie.
[1] Tutti i dati sul commercio sono tratti da UNCTAD.
[2] Jeune Afrique, Russafrique, n. 3057-3058, agosto 2019.
[3] Tutti i dati sull’export militare sono tratti da SIPRI.