Tre mesi dopo il golpe militare, i generali non hanno ripreso il pieno controllo del paese e vista la portata della resistenza, non è chiaro se ce la faranno mai. Intanto la comunità internazionale valuta l'embargo sulle armi.
Dopo tre settimane di combattimenti, le forze armate birmane sono entrate a Mindat, cittadina dello stato occidentale di Chin, ribellatasi ai generali autori del golpe dello scorso 1 febbraio a Naypyidaw. Gli attivisti delle Chinland Defense Force hanno reso noto di essersi ritirati da Mindat “per risparmiare alla città e ai suoi abitanti ulteriori bombardamenti”. A poco più di tre mesi dal golpe militare, è salito ad 800 il numero delle vittime – e circa 3.500 arresti – dall’inizio delle proteste, mentre per le Nazioni Unite sono oltre 250mila gli sfollati interni. In seguito al deteriorarsi della situazione nel paese, l’Assemblea Generale dell’Onu sta valutando un embargo al trasferimento di armi alla giunta militare birmana. Il progetto di risoluzione – avanzato dal Liechtenstein, con il sostegno di Unione Europea, Regno Unito e Stati Uniti – chiede inoltre ai militari di “porre fine allo stato di emergenza” e fermare immediatamente “ogni violenza contro i manifestanti pacifici”, nonché “di rilasciare immediatamente e incondizionatamente il presidente Win Myint, la consigliera di stato Aung San Suu Kyi” e tutti coloro che sono stati “arbitrariamente detenuti, accusati o arrestati” dal colpo di stato ad oggi. La crisi in Myanmar ha fatto irruzione anche sul palco di Miss Universo, dove Thuzar Lwin, reginetta del paese asiatico, ha srotolato un cartello con la scritta “Pray for Myanmar”. E durante una messa speciale per la comunità del Myanmar in Italia, anche Papa Francesco ha rievocato la situazione nel paese e auspicato che “Dio converta i cuori di tutti alla pace”.
Guerra ai civili?
La rivolta di Mindat – nella regione occidentale di Chin e a circa un centinaio di chilometri dal confine con l’India – è iniziata quando i residenti locali hanno istituito una sorta di amministrazione popolare, affermando di non riconoscere l'autorità del governo militare. All'inizio della scorsa settimana il governo di Naypyidaw ha dichiarato la legge marziale in città e definito “terroristi” coloro che sfidano la sua autorità, affermando che istituirà un tribunale militare per processare i responsabili degli attacchi alle forze di sicurezza. Quella in corso a Mindat è una delle diverse rivolte in corso nel paese per contrastare la giunta militare. Il sito di informazione indipendente Irrawady denuncia che i militari abbiano fatto ricorso a scudi umani per perlustrare le strade una volta entrati nella città. L'ambasciata americana a Naypyidaw ha rilasciato una dichiarazione chiedendo alla giunta militare di “porre fine alla violenza contro i civili”, mentre il governo di unità nazionale ‘ombra’, che riunisce i deputati vincitori delle elezioni dello scorso novembre a cui i militari hanno precluso l’accesso in Parlamento, denuncia che l'uso di armi da guerra contro i civili “dimostra fino a che punto il regime è disposto ad arrivare pur di mantenere il potere”.
Preoccupazione regionale?
L'escalation delle violenze e il fallimento della giunta nel ristabilire l'ordine nel paese stanno alimentando timori per la stabilità regionale. Nelle scorse settimane i rappresentanti dei 10 stati membri dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean) riunitisi a Giacarta hanno discusso della crisi in Myanmar ad un summit cui ha preso parte anche il capo dell'esercito birmano, il generale Min Aung Hlaing. Il vertice è approdato ad una proposta in cinque punti per il Myanmar che prevede: Cessazione immediata della violenza; dialogo tra tutte le parti interessate; mediazione di un inviato Asean nel processo di dialogo; fornitura di aiuti umanitari e una visita in Myanmar dell’inviato speciale per incontrare le parti in lotta. La giunta militare però ha indicato che prenderà in considerazione l’accordo solo dopo aver ristabilito l’ordine nel paese. Nelle ultime settimane, inoltre, si sono intensificati gli scontri tra esercito e ribelli nella regione di Karen e oltre 24.000 civili sono stati costretti a lasciare i loro villaggi. Di questi circa 2.000 hanno attraversato il fiume per cercare rifugio in Thailandia. Il governo di Bangkok ha reso noto che sta monitorando la situazione al confine e ha predisposto diverse aree per ospitare i rifugiati e fornire loro cure mediche.
Una mediazione cinese?
Se gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno condannato il colpo di stato e imposto sanzioni per esercitare pressioni sui militari, la risposta della Cina è stata più cauta e finora – nel rispetto della sua tradizionale politica di ‘non interferenza’ – ha sottolineato l'importanza della ‘stabilità’. Pechino è il primo partner commerciale e uno dei maggiori investitori in Myanmar. E nel paese corrono gasdotti che consentono a Pechino di diversificare il suo approvvigionamento energetico e bypassare lo stretto di Malacca e i rischi derivanti dalla pirateria. Ma alcuni analisti hanno osservato che, con il deteriorarsi della situazione interna e il trascinarsi di una crisi che sembra lontano dal trovare una via d’uscita, in un senso o nell’altro, la risposta relativamente sommessa della Cina potrebbe danneggiare i suoi stessi interessi. Nei giorni scorsi la rabbia dei manifestanti per la violenza della repressione armata si è rivolta anche contro la popolazione di origine cinese e le aziende di Pechino nel paese. Episodi che hanno fatto scattare più di un campanello d’allarme perché rischiano di aprire una ferita che potrebbe davvero compromettere il futuro degli investimenti in corso. Anche per questo, Pechino potrebbe optare per una scelta di campo inedita nella sua politica estera sul Myanmar. Proponendosi come mediatore per arginare gli effetti di un golpe che sembra aver subìto più che incoraggiato.
Il commento
di Giulia Sciorati, Associate Research Fellow, ISPI Asia Centre, e Postdoctoral Research Fellow, Università di Trento
“Le violenze nello stato di Chin di questi ultimi giorni hanno alzato il livello di rischio perché il Myanmar imbocchi la strada dello ‘stato fallito’. La giunta militare, infatti, non intende considerare proposte di mediazione internazionale (tra cui il promettente “consenso dei cinque punti" discusso dall’ASEAN a fine aprile) finché non riterrà il paese nuovamente “stabile”.
Per scongiurare gli effetti – politici ed economici – che il fallimento dello stato birmano avrebbe sul paese e sulla regione, perfino la Thailandia (il cui attuale Primo Ministro è anch'egli salito al potere con un colpo di stato ed è considerato essere in rapporti amichevoli con il generale birmano Min Aung Hlaing) ha garantito all’ONU che avrebbe fornito supporto e protezione ai rifugiati birmani. Ancora oggi, nonostante l’escalation, è un regime simile a quello thailandese uno dei futuri più probabili per il Myanmar”.
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A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications)