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Le elezioni
Myanmar: vince Aung San Suu Kyi, ma la democrazia ha già perso
Giulia Sciorati
10 novembre 2020

Voti anticipati e severe misure di distanziamento sociale ed igienizzazione dei seggi. Non sono solo gli Stati Uniti ad aver dovuto affrontare una lunga attesa per conoscere i risultati delle elezioni. Dall’altra parte del mondo, anche il Myanmar si è trovato di fronte ad una complessa tornata elettorale che sembra aver portato alla vittoria la Lega Nazionale della Democrazia (LND), il partito di Aung San Suu Kyi.

 

Come si è votato in Myanmar?

L’8 novembre si sono svolte le elezioni generali, che hanno delineato la composizione dell’Assemblea dell’Unione, la legislatura bicamerale del paese, per i prossimi cinque anni. Sono state anche elette le legislature di alcuni Stati e Regioni.[1] In Myanmar, la Camera bassa è composta da 440 seggi, di cui solo 330 sono eletti. I restanti 110 sono invece nominati dal Comandante delle Forze Armate, secondo la Costituzione del 2008, redatta durante il governo della giunta militare. La Camera alta ha un iter elettorale simile, per cui solo 168 dei suoi 224 seggi sono eletti, mentre i restanti 56 sono riservati alle forze armate.

All’incirca 38 milioni di persone si sono registrate per esprimere la propria preferenza a questa tornata elettorale in uno dei 43,200 seggi sparsi per tutto il paese. Tra questi elettori, per più o meno 5 milioni è stato il primo voto. Sebbene i candidati fossero 5,651, solo 900 erano donne.

L’LND ha annunciato di aver vinto la maggioranza dei seggi, superando la soglia critica dei 322 seggi, ma lo spoglio è ancora in corso. Anche dai conteggi preliminari, il Partito dell’Unione della Solidarietà e dello Sviluppo, il principale avversario, però rimane in netto svantaggio.

 

Quale vittoria per Aung San Suu Kyi?

Sebbene Suu Kyi abbia perso gran parte dei consensi internazionali a causa della posizione assunta nei confronti della minoranza musulmana Rohingya (che l’ONU è arrivata a definire un esempio di pulizia etnica), la sua reputazione di eroina democratica continua a rimanere intoccata all’interno del paese. E i risultati, sebbene presunti, delle elezioni ne sono un’ulteriore prova.

La popolarità di Suu Kyi è saldamente legata alla principale etnia del paese, quella burmese di religione buddista (circa il 70% della popolazione), che la identifica sia come la prigioniera politica che ha trascorso anni a lottare per la democrazia e che per questo è stata insignita del Premio Nobel per la Pace nel 1991, sia come la figlia del Generale Aung San, uno degli eroi nazionali moderni del Myanmar padre dell’indipendenza dal Regno Unito. Il legame di parentela oggi funge da cassa di risonanza per gli ideali di libertà che Suu Kyi si propone di incarnare.

Nonostante l’LND sembri avere vinto la maggioranza dei seggi, Suu Kyi continuerà a non poter accedere né alla Presidenza né alla Vice-Presidenza del paese. La Costituzione del 2008, infatti, contiene una norma, inserita dai militari appositamente per sfavorire il premio Nobel, che preclude ad ogni birmano i cui figli siano cittadini stranieri di accedere a queste posizioni. Suu Kyi ha avuto due figli dal matrimonio con Michael Harris, entrambi britannici.

 

La democrazia della maggioranza

Portati a notorietà negli anni ’50 dall’antropologo britannico Edmund Leach, gli Stati Kachin, Shan e, negli ultimi anni, anche quello Rakhine sono tornati in questi giorni al centro dell’attenzione internazionale. Adducendo motivazioni inerenti alla sicurezza nazionale, alcune aree di questi Stati sono state infatti escluse dalle elezioni del 8 novembre. Non a caso, lo scorso settembre, l’Inviato Speciale dell’ONU per i diritti umani in Myanmar non aveva potuto giudicare questa tornata elettorale come libera, poiché il governo non prevedeva di prendere alcun provvedimento per garantire alle minoranze etniche nel paese e ai rifugiati in Bangladesh la possibilità di votare.

Parte della minoranza Rohingya, inoltre, era già stata privata del diritto di voto alle elezioni del 2015, poiché i documenti temporanei, comunemente utilizzati come forma di identificazione, erano stati invalidati.[2] Questo gruppo da solo comprende 1,4 milioni di persone, circa il 4% della popolazione del paese: si stima che a questa tornata elettorale siano circa 2 milioni gli elettori appartenenti alle minoranze etniche a cui è stato negata la possibilità di votare. Inoltre, a inizio 2020, ad almeno 6 candidati Rohingya è stato vietato di concorrere.

Una vittoria di Aung San Suu Kyi, pertanto, difficilmente può essere considerata come una reale vittoria democratica. Buona parte della popolazione, infatti, è stata tenuta lontana dai seggi, proprio lo stesso segmento che avrebbe certamente votato contro il partito del Premio Nobel alla luce delle posizioni prese nei confronti delle minoranze. Per molti cittadini una vittoria del LND rappresenta un passo verso la democratizzazione del paese, ma, per il momento, è ben lungi dall’esserlo per tutti.

 

NOTE

[1] Si tratta di divisioni amministrative.

[2] I Rohingya non godono della cittadinanza birmana.

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Giulia Sciorati
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