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Commentary

NATO: aspettando la difesa europea

Andrea Locatelli
|
Antonio Zotti
02 marzo 2017

In occasione della sua prima visita ufficiale al quartier generale NATO in qualità di segretario della difesa, Jim Mattis ha esortato gli alleati europei a contribuire maggiormente ai costi di mantenimento dell’alleanza. In particolare, il monito dell’ex generale – già comandante di un’agenzia centrale per la NATO come Supreme Allied Command Transformation – si è concentrato sulle spese per la difesa: rispetto all’impegno di allocare almeno il 2% del proprio PIL per la difesa, tra i paesi dell’Unione europea solo Regno Unito, Polonia, Grecia ed Estonia possono vantare un dato superiore a tale soglia. Considerato che gli Stati Uniti spendono costantemente per il settore difesa circa il 3.5% del PIL, è comprensibile come la questione del burden sharing rappresenti un elemento di tensione all’interno della partnership transatlantica. Tanto centrale da portare il segretario della difesa a paventare – sebbene con toni molto moderati – un’eventuale riduzione dell’impegno americano in Europa.

Invero, parole analoghe a quelle pronunciate da Mattis sono state proferite con toni più o meno accesi da tutti i suoi predecessori negli ultimi 25 anni: il ritiro dell’ombrello di sicurezza americano in Europa e il suo ri-orientamento verso l’Asia sono uno dei temi più tenacemente ricorrenti nell’analisi delle relazioni transatlantiche del post-guerra fredda. In questa prospettiva, dunque, non ci sarebbe particolare motivo di preoccupazione. Ci sono però tre fattori che rendono le circostanze attuali diverse dal passato: il primo consiste nell’accresciuta assertività della Russia, che costituisce un problema di sicurezza prioritario per gran parte degli Stati dell’Europa centro-orientale: senza la NATO, i paesi baltici e la Polonia – giusto per citare i paesi più sensibili alla questione – sarebbero semplicemente indifesi rispetto alla superiorità militare di Mosca. Inoltre, il nuovo attivismo della politica estera russa sta imponendo un ripensamento dei principi fondamentali che, seppure tra numerose inadeguatezze strutturali e velleità, avevano guidato la politica estera dell’Unione europea e influenzato in qualche misura anche quelle dei paesi membri – ripensamento segnalato dalla ricorrenza di concetti quali la resilience o il principled pragmatism nella Strategia globale dell’Unione presentata lo scorso luglio dall’Alto Rappresentante. Il secondo fattore consiste nell’imprevedibilità dell’attuale amministrazione americana, il cui interesse per l’alleanza atlantica e in generale le istituzioni internazionali appare assai dubbio. Infine, ma non meno importante, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea in seguito al referendum del giugno 2016. Per fare quindi fronte all’eventualità di un disimpegno americano e al venir meno del contributo britannico, è andata crescendo in tempi recenti l’idea di rafforzare le capacità militari dell’Unione europea.

La complessità delle interazioni fra i fattori in gioco rimane molto alta, e rende difficile stimare quale corso (e soprattutto quali probabilità di successo) avrà la politica di difesa europea. Ciononostante, le prospettive di un reale impegno degli Stati membri verso la costruzione di una difesa europea rimangono quantomeno incerte. Per quanto riguarda gli effetti di Brexit, più ancora rispetto a un eventuale ridimensionamento della NATO, l’uscita di uno dei paesi membri tradizionalmente più recalcitranti rispetto alle iniziative dell’Unione – nonostante nell’ambito della Politica europea di sicurezza e difesa (PESD) il processo decisionale sia in larghissima parte controllato dai governi nazionali –  rende ragionevole ipotizzare un effetto positivo in termini di coerenza interna al sistema politico dell’Ue in quest’ambito. Ciò scaturirebbe non solo dal venir meno dell’opposizione attiva del governo britannico a rafforzare istituzioni e procedure della PESD e ad aumentarne le risorse finanziarie, ma anche della capacità di quest’ultimo di catalizzare le posizioni euroscettiche degli altri paesi membri più sensibili alle istanze “sovraniste”, spesso facendo leva sul suo ruolo di antesignano della primazia della fedeltà atlantica rispetto all’opzione europeista – non a caso il veto inglese contro l’apertura di un quartier generale unificato proprio dell’Ue si traduceva nel ricorso alle strutture NATO attraverso gli accordi Berlin Plus.

D’altro canto, la credibilità complessiva delle capacità militari e diplomatiche dell’Ue non potrà che risentire dell’assenza di uno degli unici due paesi che, in termini di impiego di risorse e attivismo politico, possono essere considerati autentiche potenze militari all’interno dell’Ue. Per quanto riguarda i rapporti fra Ue e Nato, anche la semplice diminuzione del numero di paesi che sono membri al contempo di entrambe le organizzazioni può produrre effetti negativi sulla loro già scarsamente lineare e ancor meno efficace collaborazione, come continua a ricordare il caso della Turchia. Se poi il Regno Unito cominciasse a interpretare il suo rapporto con la NATO nel senso di una stretta alternativa rispetto ai suoi rapporti con la PESC, potrebbero sorgere rischi per l’intera architettura della sicurezza europea (di cui la Gran Bretagna continuerà a far parte a prescindere dalla configurazione formale del suo rapporto con l’Unione). Questo a sua volta potrebbe erodere i benefici delle “relazioni speciali” con gli Stati Uniti, quali che siano le dichiarazioni delle amministrazioni attualmente al potere sulle due sponde dell’oceano.

In conclusione, nonostante gli effetti potenzialmente dirompenti dei nuovi fattori in gioco, nel medio periodo la portata e il ritmo dei cambiamenti potrebbero essere quantomeno contenuti da elementi “inerziali”, quali lo scarso coordinamento e il basso impegno di risorse dei paesi europei, sia in ambito NATO che dell’Unione europea, nonché l’ormai affinatissima capacità dei governi e delle burocrazie nazionali ed europee di elaborare soluzioni “pragmatiche” che sollevano sine die dall’oneroso “investimento politico” necessario a riforme profonde in quest’ambito. Quella che si profila, dunque, è l’ennesima modulazione di una situazione apparentemente senza via d’uscita – una specie di “immobilismo dinamico” delle politiche di difesa dell’Ue. A voler indulgere in analogie impegnative, la circostanza fa venire alla mente la pungente descrizione di Aspettando Godot offerta a suo tempo dalla critica teatrale Vivian Mercier: una “impossibilità teorica – una commedia in cui non succede nulla, per due volte”. La differenza è che per l’Ue la drammatica sconnessione fra parola e azione – fra le dichiarazioni relative all’inadeguatezza del proprio impegno e la volontà effettiva di porvi rimedio – si è ripetuta ininterrottamente per decenni, fino a essere normalizzata all’interno del modus operandi della sua politica di sicurezza e difesa, con significativi costi in termini di consistenza ed efficacia strategica.

 

Andrea Locatelli, Università Cattolica, e Antonio Zotti, Università Cattolica ed ISPI Research Fellow

 

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Nato Unione Europea sicurezza integrazione
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Autori

Andrea Locatelli
Università Cattolica del Sacro Cuore
Antonio Zotti
ISPI Associate Research Fellow

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