La Nato è un caso eccezionale nella storia delle relazioni internazionali. È un’alleanza straordinariamente longeva. È un’alleanza eccezionalmente istituzionalizzata. Ed è una delle pochissime alleanze nella storia che è sopravvissuta alla sua vittoria sull’avversario. Non solo, la Nato ha paradossalmente mostrato più attivismo e vitalità proprio nel periodo successivo alla scomparsa dell’Unione Sovietica, che per quarant’anni è stata la sua ragione strategica fondamentale. Tuttavia non è chiaro se e quanto la longevità, il solido processo di istituzionalizzazione e un rinnovato attivismo rendano ancora oggi la Nato uno strumento efficace.
Il ruolo della Nato oggi e la sua efficacia rimangono significativi ma, al medesimo tempo, sono compromessi dai processi di mutamento nel sistema internazionale, a cui l’alleanza può reagire ma che non può governare. Da un lato, lo scenario internazionale successivo alla fine della guerra fredda e ancor più le crisi internazionali recenti – da quella finanziaria alle crisi regionali in Ucraina, in Medio Oriente, nel Maghreb e in Afghanistan – hanno necessariamente posto la Nato di fronte a delle sfide inedite e profonde per le quali l’alleanza non era e non è attrezzata. Dall’altro lato, le capacità di trasformazione, l’adattamento, le competenze sviluppate negli ultimi vent’anni nelle missioni di intervento militare continuano a riconfermare un’efficacia non trascurabile e, soprattutto, irrinunciabile per gli stati europei e per gli stessi Stati Uniti.
Sul versante delle sfide, la Nato si è trovata al centro di un processo epocale di declino, crisi e trasformazione dell’assetto istituzionale multilaterale costruito dagli Stati Uniti nel secondo dopoguerra. Un assetto che ha avuto un successo indiscutibile per la governance a guida americana nel blocco occidentale negli anni della guerra fredda ma che ha dato dei segni di cedimento nel periodo post-bipolare. Proprio quando il crollo dell’Unione Sovietica permetteva di estendere a tutto il mondo quell’assetto multilaterale sostenuto dall’egemonia americana, l’espansione del modello non è coincisa con un suo rafforzamento ma con una sua crisi. La trasformazione impressa alla Nato, soprattutto per volontà statunitense, in direzione di una proiezione globale – la cosiddetta global NATO – si è trasfigurata in una crisi dell’alleanza, in un over stretching geopolitico fuori misura che ha creato più difficoltà all’alleanza che benefici in termini di prestigio, efficacia e potenza. L’intervento in Afghanistan è paradigmatico da questo punto di vista: l’idea che la Nato potesse intervenire in ogni angolo del globo, in un esercizio spericolato di proiezione out of area, si è rivoltata contro l’Alleanza, che non solo ha disatteso le aspettative di stabilizzazione del paese ma ha rasentato il fallimento.
Ma se la Nato subisce i contraccolpi delle difficoltà, del ridimensionamento e forse declino dell’egemonia americana e del relativo assetto istituzionale multilaterale, è altrettanto vero che la Nato rimane incontrovertibilmente un ancoraggio istituzionale per la sicurezza euro-atlantica irrinunciabile. Questo è vero soprattutto per i partner europei ma lo è nondimeno per gli Stati Uniti. Non lo è più come in passato, in cui le risorse del potere e la convergenza di interessi verso un minaccioso nemico comune davano coerenza, credibilità ed efficacia all’alleanza. Le ragioni dell’influenza della Nato oggi sono di altra natura: l’assenza di alternative credibili e praticabili; un rapporto costi-benefici dell’ipotesi di abbandonare l’alleanza che vede ancora i costi eccedere di molto i benefici; lo sviluppo di capacità militari di reazione rapida e proiezione militare che sono strumenti di sicurezza preziosi in un contesto internazionale segnato da frammentazione e numerosi focolai di crisi.
Questa situazione intermedia, dove l’efficacia della Nato persiste nel quadro però di un ridimensionamento dell’assetto multilaterale a guida americana, è leggibile nei bilanci delle missioni militari più recenti. Sarebbe forse ingiusto addebitare alla Nato le responsabilità degli insuccessi in Afghanistan – dove è stata tardivamente e frettolosamente coinvolta nel 2003 dopo due anni di missione unilaterale USA e dove Enduring Freedom, missione a guida americana, in alcuni casi ha addirittura ostacolato la missione NATO-Isaf. Non solo, in Afghanistan la Nato ha dato prova di un’efficacia militare e operativa notevole, gli insuccessi di medio-lungo periodo sul piano politico-strategico non possono oscurare tale efficacia operativo-militare. Tuttavia, l’eredità dell’Afghanistan per la Nato è un eredità problematica perché rappresenta la prima battuta d’arresto di una capacità di intervento che le missioni nei Balcani avevano affermato inequivocabilmente.
Lo stesso vale per l’intervento in Libia del 2011: una campagna aerea estremamente efficiente sotto il profilo operativo e militare che si traduce in un fallimento politico-strategico nel medio-lungo periodo. Anche in questo caso le notevoli risorse di potenza rimandano ad un’efficacia che viene compromessa però da una crisi più generale: la confusa e intermittente volontà politica degli Stati Uniti nel risolvere la crisi e una partecipazione alle operazioni per file sparse, in cui Washington conia l’ambigua formula del leading from behind, la Germania si defila e Parigi fino all’ultimo cerca di mantenere l’iniziativa in ambito anglo-francese opponendosi a un coinvolgimento della Nato. Di nuovo, le difficoltà della Nato sembrano provenire più da una crisi dell’assetto multilaterale euro-atlantico che dai suoi mezzi militari.
Andrea Carati, Università degli Studi di Milano