A sei anni dall’inizio della guerra civile, il 15 dicembre 2013, la situazione in Sud Sudan è notevolmente migliorata. Gli scontri armati sono diventati più sporadici, le persone riescono a spostarsi da una città all’altra senza essere costantemente sotto attacco e l’accesso umanitario per la distribuzione di aiuti alla popolazione civile è molto aumentato: l’ONU stima che, dall’inizio del 2019, gli attacchi contro obiettivi umanitari (inclusi i convogli che trasportano cibo) siano dimunuiti del 30%.
Nonostante questi indubbi passi in avanti, la risoluzione del conflitto tra il Governo del Sud Sudan guidato da Salva Kiir e la Sudan People’s Liberation Army-In Opposition (SPLA-IO), sotto la leadership dell’ex vicepresidente Riek Machar Teny, si trova ancora in una pericolosa fase di stallo, che mette a repentaglio non solo la tenuta del cessate il fuoco ma anche il processo di pace nel suo complesso. A conferma dell’estrema difficoltà ad avanzare nell’implementazione dell’accordo, la creazione del governo di unità nazionale per la transizione è stata posticipata di altri 100 giorni, dopo che la scadenza era stata già spostata da maggio al 12 novembre 2019.
A settembre 2018, grazie alla mediazione del presidente dell’Uganda Yoweri Museveni e dell’allora presidente del Sudan Omar al-Bashir (poi deposto ad aprile 2019), Kiir e Machar avevano firmato il Revitalized Agreement on the Resolution of the Conflict in South Sudan (R-ARCSS), un accordo di pace che riprende quello stipulato ad agosto 2015, collassato dopo meno di un anno. Nonostante il rinnovato impegno delle parti ad applicarlo e la previsione di meccanismi di controllo e scadenze più stringenti, l’accordo ripropone sostanzialmente le stesse disposizioni del suo predecessore: la creazione di un governo di unità nazionale, l’organizzazione di elezioni competitive nel giro di pochi anni, la fusione delle forze armate accompagnata dalla riforma del settore della sicurezza, il monitoraggio da parte di una Commissione (Reconstituted Joint Monitoring and Evaluation Commission) composta da rappresentanti dell’Intergovernmental Authority on Development (il principale organismo regionale del Corno d’Africa allargato) e alcuni partner internazionali. Come il precedente, l’accordo presenta alcuni aspetti problematici che ostacolano il progredire del processo di pace e rischiano di farlo nuovamente deragliare.
In primo luogo, non affronta la questione del numero di ‘stati’ (le regioni federate) e della demarcazione dei loro confini. Al momento dell’indipendenza, nel 2011, il Sud Sudan era formato da 10 di queste unità interne. Tra il 2015 e il 2017, il loro numero è stato portato a 28 e poi a 32 con una decisione unilaterale del presidente che ha creato molto scontento tra i suoi oppositori. Gli stati sono un’unità di governo sub-nazionale fondamentale nel sistema sud sudanese, godono di una certa autonomia fiscale e i loro governatori hanno potere sulle nomine politiche di tutte le unità di governo di livello inferiore. Storicamente, hanno rappresentato uno strumento fondamentale di cooptazione e di redistribuzione clientelare. L’aumento del loro numero e la ridefinizione dei confini sono state effettuate in modo da avvantaggiare la base etno-politica del presidente, penalizzando le altre etnie e sottraendo risorse importanti (terra, petrolio) al controllo di altri gruppi. Si tratta, per questo motivo, di un elemento di fortissima contestazione da parte dell’SPLA-IO e degli altri gruppi di opposizione.
In secondo luogo, le disposizioni in materia di sicurezza prevedono l’acquartieramento delle milizie ribelli in attesa di una loro fusione nell’esercito nazionale o di una loro smobilitazione, insieme alla registrazione di tutte le forze armate attive sul territorio. Un clima di diffidenza tra le due parti, tuttavia, persiste: si sospetta che il processo di acquartieramento sia oggetto di strumentalizzazioni per reclutare nuove leve da entrambe le parti, mentre la registrazione procede a rilento proprio per l’esigenza di mantenere una riserva di uomini fedeli e armi nel caso in cui il processo di pace collassi di nuovo. Questo problema è in parte legato alla questione della sicurezza personale di Machar, al momento del suo ritorno a Juba. Nel 2016, temendo – a ragione – per la sua vita, Machar è rientrato nella capitale con un contingente militare di oltre 1000 uomini a lui fedeli, coinvolto poi nei nuovi scontri contro l’esercito nazionale, provocando il cedimento dell’accordo di pace. Anche in questo caso, l’accordo non prevede alcuna disposizione specifica per la protezione di Machar – ad esempio il coinvolgimento di una terza parte – che possa evitare la militarizzazione della capitale.
Esiste, infine, un problema legato alle tempistiche con cui si dovrebbe arrivare alle elezioni, previste per il 2022: un tempo decisamente breve, soprattutto se si tiene conto dei ritardi nella formazione del governo di transizione, che rischia di dare luogo a un risultato simile a quello del 2013, con la trasformazione di competizioni politiche in scontri militari su base etnica. Il ritardo nella formazione del governo di transizione non è che una spia di una volontà politica altalenante e di interessi contrapposti dei due leader. In particolare, Salva Kiir è responsabile di aver tergiversato sull’applicazione di numerose disposizioni dell’accordo, che sarebbero state propedeutiche alla formazione del governo di transizione. Ad esempio, al momento della firma dell’accordo di pace, il governo si era impegnato a stanziare una somma di 100 milioni di dollari per la creazione delle varie commissioni e meccanismi di controllo previsti nel pre-interim period (cioè dal momento della firma dell’accordo di pace al momento della formazione del governo di transizione). Di questi, solo 40 milioni sono stati effettivamente erogati, mentre esiste ampia evidenza dell’utilizzo spregiudicato di risorse pubbliche nell’appaltare a uomini d’affari vicini al presidente le forniture di cibo e mezzi di trasporto per esercito e governo. Anche nell’implementazione delle disposizioni in materia di sicurezza il governo è più indietro rispetto all’SPLA-IO: un recente rapporto delle Nazioni Unite sostiene che solo 7.400 soldati governativi siano stati registrati fino ad ora, contro 32.000 soldati dell’opposizione. Inoltre, lo stesso rapporto accusa Kiir di aver iniziato a reclutare una milizia di 10.000 uomini nella regione di Gogrial, la sua zona di origine, in totale violazione delle disposizioni dell’accordo di pace.
Nonostante questi ritardi, all’inizio di novembre Salva Kiir si mostrava intransigente sulle tempistiche di formazione del governo di transizione, tanto da arrivare a dichiarare che avrebbe formato il governo senza la partecipazione dell’SPLA-IO – cosa che avrebbe ovviamente portato al fallimento del processo di pace e a una ripresa degli scontri armati. Machar, dal canto suo, non può permettersi di tornare a Juba senza aver ottenuto delle garanzie sulla questione degli stati, sulla sua sicurezza personale e sull’impegno di Kiir a portare avanti l’implementazione dell’accordo: accettare di sottostare a scadenze troppo rigide senza una contropartita rischia infatti di spaccare la sua base e provocare nuove scissioni nell’SPLA-IO. La questione del numero e dei confini degli stati è particolarmente importante da questo punto di vista. Più che un movimento ribelle coeso, l’SPLA-IO è sempre stato un insieme di milizie animate da problemi locali più che dall’obbiettivo di controllare il potere a livello nazionale: se questi gruppi non verranno in qualche modo inclusi nella spartizione delle posizioni di potere e delle risorse a livello locale, è molto probabile che riprenderanno le armi. Proprio per questo, la definizione dei confini degli stati potrà difficilmente essere imposta dall’alto ma dovrà per forza tenere conto della molteplicità di microconflitti a livello locale.
I leader sud sudanesi si trovano di fronte alla sfida di trovare un compromesso tra i tempi necessariamente lenti per negoziare compromessi sostenibili sulle questioni ancora aperte, e l’esigenza di uscire da uno stallo che non potrà protrarsi ancora a lungo. La comunità internazionale, da cui il Sud Sudan dipende finanziariamente, è piuttosto spazientita. Gli Stati Uniti, che sono il principale donatore del paese con circa 1 miliardo di dollari all’anno di aiuti, hanno richiamato l’ambasciatore dichiarando di voler rivedere la linea politica fin qui seguita. Questo approccio, sommato all’embargo sulle armi imposto nel 2018 (anche se mai rispettato dai paesi della regione) e alle minacce di sanzioni individuali contro i leader sud sudanesi, dovrebbe spingere le parti ad accordarsi sulla formazione del governo, a fronte del rischio di vedere notevolmente ridotte le risorse previste per finanziare il processo di pace. Tuttavia, come suggerisce un recente documento pubblicato dal Conflict Research Programme di UKaid, le scadenze imposte dall’esterno, accompagnate da un restringimento dei cordoni della borsa, non portano sempre ai risultati sperati: ne è un esempio quanto accaduto a luglio 2016, con la ripresa del conflitto. È quindi necessario trovare un equilibrio tra il raggiungimento degli obiettivi definiti dall’accordo di pace e il mantenimento di uno spazio negoziale in cui le parti possano continuare a confrontarsi in modo flessibile sulle questioni più delicate.