Dopo un anno e mezzo di rinvii e incertezze, le elezioni municipali in Tunisia, le prime dell’era post-Ben Ali, hanno finalmente avuto luogo il 6 maggio 2018. Le votazioni sono state accolte dall’entusiasmo degli osservatori internazionali, ma al di là della ritualità del processo democratico, i risultati sono da leggersi con attenzione.
In un articolo del Paìs, l’inviato a Tunisi Ricard Gonzales evidenziava il profondo divario tra la percezione internazionale, che loda l’avanzare del processo democratico nel Paese, e la frustrazione della popolazione, manifestatasi ripetutamente nelle strade della capitale e di diverse località dell’interno. L’ultimo episodio è del gennaio 2018, a seguito della legge finanziaria del 2018 che, recependo alcune condizionalità richieste del Fondo Monetario Internazionale, impone un aumento del carico fiscale che andrà a gravare soprattutto sul ceto medio/medio-basso, già colpito dalla drammatica svalutazione del dinaro tunisino, anch’essa sostenuta dall’istituzione internazionale.
La profonda delusione per i principali partiti di governo, Nidaa Tounes ed Ennahda (in coalizione dalle elezioni legislative del 2014 e successivamente all’interno del governo di unità nazionale, risultato del cosiddetto "Patto di Cartagine") si è innanzitutto tradotta in una modesta affluenza alle urne, in particolare nelle aree più marginalizzate e nelle tante periferie del Paese, 33,7% secondo i dati ufficiali.
A questa disillusione per la politica, si aggiunge il fatto che, cumulando i voti alle tante liste indipendenti presentatesi (fenomeno già osservatosi durante le elezioni per l’Assemblea Costituente nel 2011 e per le elezioni legislative e presidenziali del 2014), il "partito degli indipendenti" si attesta come prima formazione con il 33,2% dei seggi. Seguono Ennahda con il 29,68%,e Nidaa Tounes con il 22,7%.
Si tratta di un risultato coerente con le dinamiche politiche in corso nel Paese. Da una parte la popolazione tunisina pare rifiutare le formazioni partitiche più istituzionalizzate, giudicate incapaci di offrire risposte convincenti ai propri cittadini, oltre che responsabili del deterioramento della situazione economica. Dall’altra, una galassia multiforme di iniziative cerca di creare alternative e forme di protesta che possano contrastare un sistema che il 2011 non è riuscito a sradicare completamente, tra uomini legati al passato autoritario del Paese e nuove forme di affarismo e clientelismo.
Queste iniziative si inseriscono nel composito lavoro della società civile, in particolare – solo per citare alcuni esempi – dei movimenti Mnesh Msameh e Fesh Nestannew. Il primo ("io non perdono") si batte contro la cancellazione dei crimini economici da parte degli uomini vicini a Ben Ali, mentre il secondo ("cosa aspettiamo?") si è raccolto intorno alle diverse istanze socio-economiche disattese dal governo, con specifico riferimento alla legge finanziaria 2018.
Oltre alla perdita di consensi di Nidaa, è importante inoltre dedicare qualche riflessione a Ennahda. Nel 2011 il partito ottenne circa il 41% dei voti, perdendo successivamente circa 10 punti percentuali nel 2014 (il primo partito fu Nidaa, formatosi nel 2013, con il 38 percento). Nonostante il lavoro fatto negli ultimi anni per accreditarsi come una formazione moderna (si pensi alla conferenza del maggio 2016) e alla scelta di alcuni candidati "vincenti" per i gusti della stampa internazionale (ad esempio la candidata al Comune di Tunisi, Souad Abderrahman, non velata ma di posizioni molto conservatrici in materia di politiche familiari, o al tunisino ebreo Simon Slama), i risultati elettorali paiono suggerire una progressiva disaffezione nei suoi confronti, non più "novità" e considerato deludente come l'avversario-partner di governo Nidaa.
Molte domande rimangono aperte in questo Ramadan tunisino post-elezioni. Su tutte, la questione delle alleanze nelle diverse municipalità nel quadro dell’eterogeneità degli indipendenti e delle rivalità fra Nidaa ed Ennahda. Una rivalità che va oltre il livello decentrato, e che rivela come il fiore all’occhiello dei Paesi del Mediterraneo, in materia di transizione democratica, sia attraversato da profonde fratture socio-politiche che non devono essere ignorate.