L'incontro di oggi a Washington tra il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sembra essere più teso di quanto ci si aspettasse perché contribuirà a definire le agende politiche dei due paesi su questioni fondamentali come l'Iran, la Siria e il conflitto israelo-palestinese, fonti di forte disaccordo tra Netanyahu e l'ex presidente Barack Obama.
Ma, nonostante vi sia una migliore e dichiarata intesa tra Bibi e Trump, negli ultimi giorni sono emersi fattori che hanno contribuito a rendere questo atteso colloquio molto più carico di tensione rispetto a quanto previsto. Infatti, oltre alle dimissioni del consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, Michael Flynn, che aveva aiutato a coordinare la visita con le controparti israeliane, il principale motivo di agitazione proviene dall'approvazione da parte del parlamento israeliano della Regularization Law, lo scorso 6 febbraio, con 60 voti a favore. Questa nuova regolamentazione legalizza retroattivamente alcuni avamposti già esistenti (53 insediamenti, per un totale di 4.000 case), considerati fino a ora illegali da parte dello stato israeliano in quanto costruiti su terreni privati palestinesi in Cisgiordania.
La legge ha dovuto affrontare una dura opposizione interna che, insieme all'Unione Europea e all'Onu, ha aspramente criticato la nuova disposizione: "Questo voto non è un voto a favore o contro i coloni, ma un voto a favore o contro gli interessi di Israele", ha dichiarato Isaac Herzog, leader dell'Unione Sionista, mentre il procuratore generale Avichai Mandelblit ha messo in evidenza come per la prima volta la legislazione israeliana espliciti chiaramente una contravvenzione delle protezioni concesse alle popolazioni occupate, ai sensi della Convenzione di Ginevra.
I membri della coalizione di governo e il movimento dei coloni hanno invece accolto questa novità legislativa, come vero e proprio punto di svolta nel progetto d'0insediamento iniziato cinquant'anni fa dopo la conquista del West Bank, durante la guerra dei Sei Giorni (di cui si ricorda l'anniversario proprio quest'anno). Il numero dei coloni in Cisgiordania è cresciuto del 3,9 per cento dal 2015, con un tasso di crescita doppio rispetto a quello della popolazione nel territorio dello Stato di Israele, arrivando a contare oltre 421.000 persone nel 2016 (esclusi i residenti dei quartieri ebraici a Gerusalemme Est, che ospita più di 200.000 israeliani). Questo incremento avrebbe potuto essere più alto se, dal 2012, non fosse stato attuato un piano per il congelamento degli insediamenti effettuato dal governo Netanyahu in seguito a numerose pressioni internazionali, in particolare da parte dell'amministrazione Obama. La tendenza però sembra essere stata prontamente invertita dal momento in cui Trump si è insediato alla Casa Bianca; Israele ha infatti subito approvato la costruzione di 5.500 case nel West Bank e oltre 500 case nelle aree di Gerusalemme Est.
I sostenitori del campo nazional-religioso concepiscono quindi l'avvento della presidenza Trump come la realizzazione delle condizioni favorevoli per l'annessione della Cisgiordania, il momento epocale per poter cogliere quest'opportunità. "Se Netanyahu alla Casa Bianca osa fare anche menzione di uno stato palestinese, la terra tremerà e la miseria indicibile toccherà il popolo ebraico" ha dichiarato Naftali Bennett, ministro dell'Istruzione e capo del partito Bait Hayehudi, definendo l'incontro di oggi con Trump come "la prova della vita di Netanyahu". Ma Bibi sembra voler adottare un approccio più cauto rispetto alla linea dura suggerita dai suoi alleati politici, ritrovandosi così nella delicata condizione di dover bilanciare le pressanti richieste interne (così essenziali per la tenuta del governo), con l'esigenza di rinforzare l'intesa con il neopresidente americano.
Infatti il lungo e vistoso silenzio dell'amministrazione americana, in seguito all'approvazione della Regularization Law, è stato interrotto solo il 10 febbraio quando il presidente Trump ha dichiarato al quotidiano Israel Hayom come gli insediamenti non contribuiscano al processo di pace, facendo così intuire che anche la sua benevolenza nei confronti delle politiche israeliane potrebbe avere un limite.
L'aspettativa che molti esponenti della destra nutrono nei confronti dell'incontro di oggi ha probabilmente reso il colloquio tra i due leader più insidioso e delicato, catalizzando l'intera attenzione sul tentativo di ottenere da parte di Trump una conferma definitiva in merito all'abbandono della soluzione "due popoli, due stati". Piuttosto, a causa delle debolezze della sua coalizione, per Netanyahu sembrerebbe più conveniente ottenere una dichiarazione non vincolante circa la soluzione della questione israelo-palestinese e circa l'impegno del governo israeliano nel riaprire i negoziati. In questo modo, non solo verrebbero evitate ripercussioni sulla stabilità interna del paese e del governo stesso, ma verrebbe anche aggirato il rischio di compromettere ulteriormente la posizione d'Israele nelle relazioni con la comunità internazionale, in modo speciale con gli Stati Uniti dell'era Trump.
Anna Maria Bagaini, Università Cattolica di Milano