Dalla rivoluzione contro un regime a una dittatura mascherata di democrazia. Nel Nicaragua di Daniel Ortega sono ormai saltati tutti i parametri della convivenza civile ed è caccia all’uomo a chi si oppone al governo. Nel mese di giugno sono stati arrestati cinque candidati d’opposizione per le presidenziali di fine anno, oltre a giornalisti, banchieri, imprenditori che hanno osato schierarsi contro l’esecutivo.
Dopo la violenta repressione dei moti di piazza nel 2018, con oltre 400 morti tra le barricate a Managua, ora la repressione è diventata chirurgica; si va a cercare casa per casa i “nemici”, si censura qualsiasi voce critica. Il tutto sullo sfondo di una crisi economica aggravata dalla pandemia e dalla devastazione provocata dal passaggio degli ultimi uragani Iota ed Eta, con un considerevole aumento della povertà e sempre più gente che decide di emigrare o chiedere asilo politico tra Messico e Stati Uniti. La prima ad essere colpita in questa stretta finale è stata Cristiana Chamorro, figlia di Violeta, la presidente che seppe battere il sandinismo negli anni Novanta del secolo scorso. Cristiana si è pre-candidata per le prossime elezioni e secondo i sondaggi era una delle favorite, mentre la popolarità di Ortega è in caduta libera da tempo. La polizia ha fatto irruzione all’alba a casa sua, le ha sequestrato cellulari, computer e archivi personali, la procura ha disposto gli arresti domiciliari; tra le accuse a lei rivolte il riciclaggio di denaro. Due giorni dopo è stato arrestato un altro pre-candidato, Alfredo Cruz e via via tutti gli altri. Fermato persino Hugo Torres, il mitico comandante Uno delle truppe sandiniste, gloria della rivoluzione.
L’obiettivo, ha spiegato uno che conosce bene Ortega come il suo primo vice presidente (1985-1990) Sergio Ramirez, è la perpetuazione al potere, costi quel che costi. “Il piano è quello di non andarsene mai più. La repressione è necessaria perché ormai nessuno segue più il suo progetto. L’unica forma di restare in sella è diffondere il terrore, colpendo personaggi di spicco per “dare l’esempio” e scongiurare nuove rivolte di piazza.
Politici, giornalisti, professori universitari e ora anche imprenditori e industriali. La scure si abbatte su tutti, per evitare che qualche esponente della società civile possa tentare di guidare un movimento forte d’opposizione al regime. La concentrazione del potere intorno ad Ortega e sua moglie Rosario Murillo è in corso da anni ma è dal 2018 il processo è stato accelerato. È una storia, la sua, di continue mutazioni. Prima il guerrigliero marxista, poi il presidente rivoluzionario.
Quando è tornato al potere nel 2006 Ortega ha moderato i toni e ha scelto il populismo, forte della pioggia di aiuti a fondo perso che arrivavano dal Venezuela chavista, almeno cinque miliardi di dollari tra il 2008 e il 2016. Ortega che si schierava con il bolivarismo latino-americano, ma in patria stringeva sante alleanze con evangelici e conservatori, diventando anti-abortista e omofobico. Da lì il passo è stato breve verso la terza fase, quella più cupa, con l’occupazione de facto degli altri poteri, il controllo del Parlamento e della Corte suprema, una schiera di giudici a suo servizio, la polizia e le forze armate disposte a sparare sulla folla dei dimostranti a lui contrari. Si è dotato di una legge ad hoc, di “difesa dei diritti del popolo”, che permette al governo di arrestare chiunque sia considerato una minaccia per la sicurezza nazionale. Sono stati istituiti dei comitati di controllo cittadini sul modello dei CDR cubani, la censura sui media è pressoché totale, estesa anche ai profili Twitter o Facebook. Il comandante è sempre più solo, ormai non riesce a mobilitare nessuno in piazza, ma i nicaraguensi hanno paura perché sanno che chi si oppone rischia grosso. Molti, nel frattempo, scappano; 100.000 sono emigrati in Costa Rica negli ultimi tre anni, migliaia le richieste di asilo politico al Messico o gli Stati Uniti.
La situazione economica è sempre più preoccupante, la povertà è cresciuta notevolmente, mettendo fine al ciclo di crescita sostenuta registrato dal 2008 al 2016, una media del 5% del Pil, in assoluta controtendenza rispetto ai paesi vicini. Come per il Venezuela, le prese di posizione della comunità internazionale sembrano non bastare. La recente risoluzione di condanna della OEA, con l’astensione di Messico e Argentina, è poca cosa per fermare il progetto totalitario. Forse, come ha suggerito lo stesso Sergio Ramirez in una recente intervista alla Folha de Sao Paulo, l’unica vera pressione può arrivare da nuove sanzioni commerciali dagli Stati Uniti, destinazione del 60% della merce esportata dal Nicaragua. “In Venezuela il regime ha ancora molto denaro, il discorso antiimperialista di Ortega invece si scontra con la realtà del Nicaragua, che dipende economicamente da Washington”. Ma le sanzioni, si sa, colpiscono la popolazione prima dei suoi governanti. Ortega, intanto, si appresta a farsi rieleggere in elezioni senza partita. Un uomo solo che resta al comando con la forza, in un Paese sempre più in crisi.