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Instabilità in Sahel

Niger: cosa c’è dietro l’attacco dello Stato Islamico

Camillo Casola
|
Alessio Iocchi
20 Dicembre 2019

Il 10 dicembre 2019 la regione sud-occidentale di Tillabéri, in Niger, è stata sconvolta da un nuovo episodio di violenza, condotta ai danni delle forze militari di Niamey. Circa 500 uomini, pesantemente armati, hanno preso d’assalto il campo militare di In-Atès, a 180 km dalla capitale e 20 km dalla frontiera con il Mali. Più di 70 soldati sono stati uccisi, diverse decine i feriti, numerosi armamenti saccheggiati. L’azione ha fatto seguito a un evento analogo contro la stessa guarnigione militare, che cinque mesi prima aveva causato la morte di 18 militari nigerini. Il drammatico bilancio dell’attacco racconta di una situazione securitaria fuori dal controllo degli stati e delle forze di sicurezza nazionali e internazionali nella regione del Liptako-Gourma.

A partire dal 2018, l’incremento dei livelli di violenza politica al confine tra Burkina Faso, Niger e Mali ha reso evidente l’incapacità degli stati saheliani di far fronte all’estremismo violento di attori armati non statali. Solo poche settimane prima dei drammatici eventi di In-Atès, un attacco perpetrato contro il campo militare di In-Delimane, nella regione di Ménaka, in Mali, aveva causato la morte di 49 militari delle forze armate maliane. Da diversi mesi, inoltre, la quasi totalità del territorio del Burkina Faso è segnata da una successione di attacchi di ampia portata, come ha dimostrato l’uccisione di 37 dipendenti della compagnia estrattiva canadese Semafo, nel novembre di quest’anno, o i numerosi assalti a chiese, istituzioni pubbliche, autorità tradizionali occorsi negli ultimi mesi con impressionante regolarità. I contingenti militari francesi dispiegati nel quadro dell’Opération Barkhane – operazione di counterterrorism regionale, lanciata nel 2014 – sembrano a loro volta accusare gravi difficoltà sul terreno, costretti a fronteggiare una minaccia mutevole e sempre più difficile da estirpare: il 25 novembre, lo scontro tra due elicotteri impegnati in operazioni di sostegno alle forze di terra ha ucciso 13 ufficiali e stimolato una riflessione strategica a Parigi sui limiti di una missione che espone la Francia ai rischi di una paralisi sul lungo periodo. La forza congiunta del G5 Sahel, perno delle strategie di cooperazione securitaria nella regione, resta, infine, solo parzialmente operativa, a causa delle restrizioni budgetarie e dei vincoli operativi che ne rallentano il dispiegamento e limitano le capacità d’azione contro i gruppi armati.

Il quadro di insicurezza in Sahel è definito principalmente dall’attivismo di diverse organizzazioni armate di ispirazione salafita-jihadista, legate ad al-Qa’ida o allo Stato Islamico (IS). La capacità degli attori jihadisti di far leva su profonde linee di frattura sociali, strumentalizzando conflitti intercomunitari per l’accesso alle limitate risorse naturali tra pastori semi-nomadi e agricoltori stanziali ed esacerbando tensioni etniche preesistenti tra comunità fulani, dogon, tuareg o bambara, contribuisce a rafforzarne il radicamento territoriale, alimentando l’instabilità regionale.

L’attacco di In-Atès

Il 12 dicembre, attraverso un comunicato apparso su Amaq, organo di stampa dello Stato Islamico, la provincia ovest-africana del sedicente Califfato (al-Dawla al-Islamiyya - Wilayat Gharb Ifriqiya, ISWAP), principalmente operativa nella regione del bacino del Lago Ciad, ha rivendicato l’attacco di In-Atès. Un’attenta analisi delle circostanze, tuttavia, mostra con evidenza come gli autori materiali dell’attacco siano miliziani principalmente operativi nella stessa regione, e non mujahidin provenienti dall’area di azione tradizionale di ISWAP.

L’attacco alla guarnigione militare sembra essere correlato ad alcuni altri atti di violenza verificatisi nel 2018. A maggio, uomini armati presumibilmente di etnia tuareg uccisero 17 civili fulani in una moschea a Tindibawen, al confine tra Mali e Niger. La strage spinse diversi giovani fulani a mobilitarsi contro il Groupe d’autodéfense touareg Imghad et alliés (GATIA), milizia filo-governativa prevalentemente tuareg. In molti integrarono i ranghi dei due principali gruppi salafiti-jihadisti attivi nella macro-regione. Da un lato, Islamic State in the Greater Sahara (ISGS), i cui attacchi violenti sono generalmente rivendicati dallo Stato Islamico sotto le insegne di ISWAP in seguito al riconoscimento formale del giuramento di fedeltà (bay’a) all’allora califfo Abu Bakr al-Baghdadi, nel 2016. ISGS fu originariamente costituito su iniziativa di Adnan Abu Walid al-Sahrawi, prodotto di una scissione interna al gruppo qaidista al-Murabitun di Mokhtar Belmokhtar. Dall’altro, Jamaʿat Nuṣrat al-Islam wa’l Muslimin (JNIM), network costituito da gruppi affiliati ad al-Qa’ida (katiba Macina, al-Murabitun, Ansar Dine e la katiba sahariana di al-Qa’ida nel Maghreb Islamico) e guidato da Iyad ag Ghali, ex ribelle nazionalista tuareg convertito alla causa dell’Islam salafita-jihadista.

Nonostante le diverse affiliazioni (a IS e ad al-Qa’ida), la relazione tra le due principali organizzazioni salafite-jihadiste non sono conflittuali in Sahel. Al contrario, osservatori e analisti sottolineano come JNIM e ISGS sembrino cooperare sul terreno, benché non conducano operazioni congiunte. Il coordinamento non è dovuto soltanto alle comuni radici nei network saheliani di AQIM, che per lungo tempo ha fornito addestramento alle tecniche di guerriglia ai leader delle organizzazioni locali, ma anche alle relazioni tradizionali esistenti con le comunità fulani e dawsahak, stanziate tra la regione maliana di Gao e il dipartimento nigerino di Tillabéri. Questa dinamica ha consentito ai due gruppi di godere di qualche forma di legittimità nei confronti delle autorità statali, spesso percepite come corrotte o apertamente ostili nei confronti degli interessi locali.

ISWAP, tra spostamento strategico e fratture ideologiche

ISWAP ha recentemente sperimentato un drammatico leadership change. Ad agosto del 2018, il principale stratega del gruppo, Mamman Nur, è stato ucciso, in ragione di gravi contrasti interni all’organizzazione: la shura – il principale organo di governo – non approvava i negoziati condotti da Nur con le autorità statali nigeriane per la liberazione di diverse decine di studentesse rapite da ISWAP all’inizio dell’anno nello stato di Yobe. La sua uccisione è sembrata, inoltre, motivata dalla preoccupazione che, grazie ai suoi network e alle indiscusse abilità politiche, potesse eventualmente costituire un’organizzazione rivale. Nel marzo del 2019, poi, Abu Mus‘ab al-Barnawi, emiro di ISWAP, è stato rimosso dalla carica e sostituito da Abu Abdullah al-Barnawi. Tra marzo e maggio 2019, al-Barnawi ha lasciato probabilmente l’area di attività di ISWAP, nella regione del lago Ciad, mentre alcuni tra i suoi seguaci avrebbero partecipato ai furti di bestiame organizzati da gruppi criminali nella regione di Zamfara, in Nigeria.

La recente riorganizzazione interna a ISWAP potrebbe essere correlata a questioni dottrinarie importanti. Una disputa in corso all’interno della più ampia galassia salafita-jihadista, infatti, divide i sostenitori di un processo di fusione politica (mulaffiqa), impegnati nel tentativo di costituire un ponte di connessione tra la dottrina salafita-jihadista e l’Islam politico mainstream, e gli estremisti (ghulat), le cui accuse di infedeltà (takfir) sono rivolte anche ad altri musulmani sunniti e a esponenti dell’Islam politico, come la Fratellanza Musulmana. Tale frattura, che ha fortemente limitato lo spazio di manovra per i seguaci di una tendenza più ‘moderata’ – di cui era espressione l’ex direttore del Maktab al-Buhuth wa’l-Dirasat, l’ufficio di studi e ricerche dello Stato Islamico, il bahrenita Turki al-Bin’ali, ucciso nel 2017 dai raid statunitensi – ha investito l’Africa occidentale e la Nigeria, in particolare. ISWAP, in effetti, è emerso in risposta all’estremismo del gruppo guidato da Abu Bakr Shekau, Jama'at Ahl as-Sunna li’l Da'wa wa’l Jihad (comunemente noto come Boko Haram), adottando una strategia tesa a risparmiare i civili dalle violenze e prendendo di mira principalmente militari, polizia e avamposti statali: la leadership di Mamman Nur si collocava tra le espressioni principali di questa svolta strategica. A riprova di un mutamento di equilibri in corso, la sua esecuzione, su ordine di alcuni membri della shura di ISWAP, sembrerebbe legata alla volontà di negoziare con le autorità statali in Nigeria, accusate di apostasia secondo i canoni salafiti-jihadisti, che avrebbe lanciato un segnale di debolezza dell’organizzazione, in contrasto con l’escalation di attacchi che nel 2018 le avevano invece dato forza.

Fino alla rimozione di Abu Mus‘ab al-Barnawi, le tattiche militari impiegate da ISWAP hanno costituito il riflesso di quelle utilizzate da IS: guerriglieri ben armati, piccole unità di fuoco altamente mobili, capaci di spostarsi agilmente per colpire obiettivi ad alto valore strategico come depositi militari, spesso protetti da giovani reclute prive di esperienza. Le principali innovazioni tattiche emulate da IS sono correlate all’introduzione di corpi d’élite, ingimasi, da impiegare come truppe d’assalto in combattimento o anche come elementi infiltrati dietro le linee nemiche, e all’utilizzo di gabbie di protezione di veicoli esplosivi (Suicide Vehicle Borne Improvised Explosive Devices, SVBIED), tecnica di guerra direttamente mutuata dallo scenario siriano. È interessante rilevare le similarità dell’attacco di In-Atès con il modus operandi di ISWAP: l’impiego di unità mobili, responsabili dell’interruzione delle comunicazioni, e il ricorso di SVBIED a fare da ariete.

L’attacco di In-Atès richiede di essere interpretato guardando a due tendenze generali. In primis, a livello regionale, tenendo conto delle mutazioni strategiche in corso in Sahel e prendendo in considerazione il coordinamento e le dinamiche di competizione tra ISWAP, ISGS, JNIM. In secondo luogo, guardando al livello globale e alle dispute dottrinarie interne alla galassia salafita-jihadista globale.

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AUTORI

Camillo Casola
ISPI Associate Research Fellow
Alessio Iocchi
Norwegian Institute of International Affairs (NUPI)

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