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Commentary
Niger e Sahel: quando la lotta ai trafficanti aggrava l'insorgenza jihadista
Luca Raineri
01 Agosto 2018

Nel corso degli ultimi anni, il Niger è rientrato nel novero dei partner strategici dell’Unione Europea e dei suoi stati membri. Lo stato saheliano, infatti, si è ritrovato all’incrocio dei vettori di tensione che smuovono le inquietudini securitarie del vecchio continente. Da una parte, il Niger si è trovato ad essere uno snodo cruciale delle traiettorie migratorie che connettono l’Africa Occidentale alla Libia, ed è quindi considerato – non sempre a buon diritto – l’anticamera della migrazione irregolare verso l’Europa. D’altra parte, focolai insurrezionali articolati in chiave jihadista circondano il Niger da ogni lato: Al-Qaeda e i suoi epigoni in Mali, Boko Haram in Nigeria, e le sigle più disparate in Libia e in Burkina-Faso. Sebbene Niamey sia una delle poche capitali regionali che ancora non ha conosciuto attentati terroristici, l’erosione progressiva della sicurezza alle frontiere contribuisce ad aggravare una situazione umanitaria già precaria e ad esacerbare tensioni sociali di varia natura. Il Niger è pertanto divenuto il perno geopolitico dell’agenda anti-terroristica occidentale declinata in chiave regionale.

Grande quattro volte l’Italia e con un PIL comparabile a quello di Malta, il Niger approssima il fondo dell’indice ONU di sviluppo umano, e il suo budget dipende per circa il 45% dagli aiuti allo sviluppo internazionali. Non sorprende quindi che le autorità nigerine abbiano finito per assecondare le priorità e le richieste dei loro partner europei in materia di lotta al terrorismo e alla migrazione irregolare. E tuttavia, a dispetto di una diffusa retorica fondata sulla presunzione di un nesso fra criminalità organizzata e terrorismo, non è affatto detto che in Niger queste due agende siano facilmente conciliabili.

Da una parte, infatti, la lotta alla migrazione irregolare non ha fatto economia di misure repressive volte allo smantellamento delle infrastrutture di supporto alla migrazione della regione di Agadez. Impropriamente definite “organizzazioni di trafficanti”, tali infrastrutture presentano in realtà un’organizzazione fluida e orizzontale, più simile alla fornitura di servizi – ancorché informali – che alla struttura gerarchica della criminalità organizzata. Agli occhi delle popolazioni dell’inospitale settentrione nigerino, in effetti, l’economia della migrazione costituisce non già una minaccia, ma un’opportunità di resilienza in cui hanno trovato impiego anche molti ex-ribelli delle insurrezioni Tuareg dei decenni passati. Non a caso, al giro di vite nei confronti dei passeurs è seguito un incremento considerevole della violenza armata nella regione di Agadez, cui si accompagna un senso di frustrazione dilagante nei confronti di un governo percepito come indifferente alle esigenze della popolazione e supino ai desiderata dell’Occidente. Come dimostrato da numerose ricerche, tali dinamiche costituiscono uno dei principali fattori che concorrono alla radicalizzazione dei giovani africani verso l’estremismo jihadista. E in effetti le autorità di Agadez si dichiarano allarmate per l’agitazione nei ranghi degli ex-ribelli, alcuni dei quali – risalendo la filiera dei legami etnici transnazionali – avrebbero già raggiunto i jihadisti dei paesi vicini per unirsi alla lotta armata.

Se quindi la lotta alla migrazione irregolare rischia di aggravare l’insorgenza jihadista nella regione, è altrettanto vero che la guerra al terrorismo sembra tatticamente costretta a comporre con gli interessi dell’economia regionale dei traffici. Le missioni militari francesi e americane in Niger non possono infatti permettersi di prescindere dall’apporto delle popolazioni locali: da una parte, nelle vaste distese sahariane l’intelligence umana consente una penetrazione capillare impensabile anche per le tecnologie di sorveglianza più avanzate – e costose; d’altra parte, agguerrite milizie locali forniscono un appoggio imprescindibile alle azioni militari più rischiose contro le cellule di terroristi. E tuttavia, il reclutamento informale di attori indigeni impone di non interferire con pratiche locali certamente poco urbane, ma tacitamente legittimate e concretamente incoercibili: non ultimo, i traffici di varia natura. Le forze francesi nel Sahel si avvalgono in effetti della collaborazione di milizie tribali ritenute compartecipi del traffico internazionale di droga, e hanno appaltato le forniture di alcune basi militari a compagnie di trasporti accusate di narcotraffico. Analogamente, il contingente francese schierato nel nord del Niger si è astenuto dall’interferire con i flussi migratori verso la Libia, per concentrarsi sulla missione primaria di intercettare i traffici d’armi e neutralizzare terroristi transfrontalieri.

Il manifestarsi di simili contraddizioni non ha mancato di suscitare attriti fra i diversi attori internazionali che in Niger perseguono priorità strategiche sempre meno facilmente conciliabili. In questo contesto, ad esempio, si inserisce la malcelata contesa fra Roma e Parigi, le cui preoccupazioni principali vertono rispettivamente sul contenimento dei flussi migratori e sullo sradicamento del terrorismo. L’ipotesi di una missione militare italiana in Niger, imperniata nella base di Madama ai confini con la Libia, sembra stata stroncata sul nascere, e appare plausibile che Parigi abbia fatto leva sulle solide relazioni di cui gode a Niamey per proteggere da ingerenze terze quelli che ritiene essere i propri interessi vitali. Ciò ha finito per spingere le ambizioni di Roma sotto l’ala degli Stati Uniti, a cui le autorità nigerine offrono il tappeto rosso con l’obiettivo di controbilanciare la pesante ipoteca dell’eredità neocoloniale francese.

Al di là dei mutevoli equilibri geopolitici, il Niger pare soggetto a una spirale di militarizzazione, sospinta sia dalla presenza sempre più visibile – e sempre più contestata – di forze militari straniere, sia dall’aumento vertiginoso delle spese nazionali per la difesa, aumentate di 5 volte durante la presidenza di Mahamadou Issoufou fino a sfiorare il 12% del budget statale. D’altra parte, l’accesso alle armi e il sostegno di potenti alleati internazionali alimentano una crescente deriva autoritaria che consente di soffocare le aspirazioni di una popolazione stremata da crisi umanitarie persistenti: arresti arbitrari, corruzione rampante, limitazione della libertà di stampa e repressione del dissenso sono in rapido e inquietante aumento. Non certo il miglior biglietto da visita per il partner privilegiato dell’Unione Europea sulle sfide di sicurezza in Africa.

 

Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI

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Professore di Storia e Istituzioni dell'Africa, Università di Firenze

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AUTORI

Luca Raineri
Scuola Superiore Sant'Anna

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