Nuovo attacco contro un villaggio nel nord della Nigeria. È solo l'ultimo episodio di violenza in una regione teatro di un conflitto decennale, in cui operano sigle jihadiste, militari e gruppi armati fuori controllo.
È di almeno 69 morti il bilancio di un attacco ad un villaggio nel nordest della Nigeria, nello stato di Borno. Secondo le ricostruzioni fornite dalla stampa locale, uomini armati avrebbero fatto irruzione a Felo, nella zona del governatorato di Gubio, a circa 80 chilometri dal capoluogo Maiduguri, uccidendo gli abitanti e razziando gli allevamenti di bovini. Nessun gruppo ha finora rivendicato l’attacco ma alcune fonti avanzano l’ipotesi di una risposta all'uccisione di alcuni combattenti jihadisti da parte dei vigilantes locali. Lo stato di Borno e il nord della Nigeria sono sono attraversati ad anni dall’insurrezione di Boko Haram, gruppo armato jihadista da una cui costola nel 2016 si è formata la Provincia occidentale dello Stato Islamico (Iswap). Negli ultimi mesi il gruppo è stato accusato di ripetuti attacchi contro i civili. Dal 2009 ad oggi, il conflitto nel nord del paese ha causato circa 50.000 morti e oltre due milioni di sfollati, propagando le violenze nei vicini Niger, Ciad e Camerun, e spingendo una coalizione militare regionale a combattere i ribelli.
Come nasce Boko Haram?
Fondato nel 2002 da Mohammed Yusuf, Boko Haram ha lanciato le sue prime operazioni di guerriglia nel 2009. L’obiettivo dichiarato del gruppo, il cui nome in lingua hausa vuol dire “l’educazione occidentale è proibita”, era quello di creare uno stato islamico nel nord della Nigeria, dove un tempo sorgeva il califfato di Sokoto e che comprendeva territori nell’attuale Nigeria, Niger e Camerun meridionale. Dopo l’uccisione di Yusuf, il gruppo ha trovato un nuovo leader in Abubakar Shekau e dal 2013 è stato dichiarato un’organizzazione terrorista. Da allora i suoi uomini hanno messo a segno attacchi brutali contro villaggi, chiese, mercati, prendendo di mira civili, uomini politici e leader musulmani e spingendosi anche fuori dal proprio territorio originario e persino nella capitale Abuja. Nel 2013 il governo centrale nigeriano ha dichiarato lo stato di emergenza nei tre stati del nord in cui Boko Haram è più attivo: Borno, Yobe e Adamawa. Nell’aprile del 2014 il gruppo ha guadagnato la notorietà internazionale col rapimento di oltre 200 ragazze dal villaggio di Chibok, nel Borno. Nell’estate dello stesso anno, Abubakar Shekau ha annunciato la creazione di un califfato nell’area di Gwoza e pronunciato l’adesione del gruppo allo Stato Islamico. Ma nel marzo 2015 i suoi uomini avevano già perso il controllo del territorio, incalzati dalla coalizione internazionale formata da Nigeria, Niger, Camerun, Ciad e Benin. Il gruppo si è ritirato nella foresta di Sambisa da dove continua lanciare i suoi attacchi.
La partita del jihadismo africano?
Nonostante il presidente Muhammadu Buhari lo abbia più volte dichiarato “tecnicamente sconfitto”, e benché pochi giorni fa il capo della coalizione internazionale Tukur Buratai abbia parlato di “enormi successi nella lotta contro il terrorismo”, Boko Haram conta ancora migliaia di adepti e – complici la povertà e le violenze (spesso indiscriminate) delle forze armate nazionali – non sembra incontrare difficoltà a reclutare nuove leve. Negli ultimi anni, gli equilibri del jihad nella regione hanno gravitato soprattutto intorno a ISWAP, che ha assunto una maggiore centralità e preminenza rispetto a Boko Haram, soprattutto in funzione dell’affiliazione allo Stato Islamico. Attualmente, le relazioni tra le due organizzazioni jihadiste sembrerebbero di pacifica convivenza, a differenza di quanto accade in molti altri teatri africani, dove le relazioni conflittuali tra gruppi diversi si legano a una generale dinamica di conflitto tra al-Qa’ida e Stato Islamico. È quanto accade, ad esempio, nel vicino Sahel, dove ISWAP (e la filiale saheliana Islamic State in the Greater Sahara, ISGS) sono impegnate in un duro scontro nei territori tra Mali, Niger e Burkina Faso. Nei giorni scorsi, tuttavia, di una cessazione delle ostilità tra organizzazioni qaidiste e branche locali dello Stato islamico si è tornato a parlare in occasione dell’uccisione di Abd al-Malik Droukdel, leader di al-Qa’ida nel Maghreb Islamico (AQMI), e di alcuni suoi stretti collaboratori. Secondo alcune speculazioni, infatti, Droukdel si sarebbe mosso in prima persona per negoziare la cessazione delle ostilità con i rappresentanti di ISWAP (Islamic State in West African Province).
Vittime e carnefici?
La guerra contro Boko Haram sta lasciando segni profondi, e non solo in Nigeria: la regione del bacino del Lago Ciad, dove centinaia di migliaia di rifugiati dal conflitto vivono in precarietà estrema è al collasso. Da quando è iniziata la guerra al terrorismo, è proprio in questi territori che si sono intensificate le azioni ad opera della CJTF, la Civilian joint task force, nata in Nigeria e in alcuni stati confinanti per intensificare la lotta contro le milizie jihadiste. Questi vigilantes civili armati e tutt’oggi operanti sul territorio spesso agiscono in modo incontrollato e, con l’obiettivo di difendere la propria comunità da violenze e soprusi, spesso abusano del potere. Numerose nei loro confronti sono le accuse di violazioni sistematiche dei diritti delle popolazioni locali e di crimini commessi contro i civili, in una guerra in cui ci sono tante vittime e numerosi carnefici.
Il commento
Di Camillo Casola, Analista del Programma Africa dell'ISPI
"Il massacro di Gubio, nello stato di Borno, rappresenta solo l'ultimo atto di una grave escalation di violenze armate nel nord-est della Nigeria e nella regione del Bacino del Lago Ciad. Se le violenze di Boko Haram nei confronti delle popolazioni civili sono note, i frequenti cambi di leadership ai vertici di ISWAP spiegano, in parte, le oscillazioni strategiche del gruppo, che ha a sua volta fatto dei civili un target delle proprie azioni a differenza di quanto avvenuto in passato. In questo caso, due dinamiche in particolare si evidenziano: in primo luogo, i furti di bestiame (e, più in generale, le risorse di sostentamento delle comunità locali) rappresentano un driver di conflitto importante; in secondo luogo, l'attivismo delle milizie civiche di auto-difesa colma evidenti deficit di governance securitaria dello stato".