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TRANSIZIONE GREEN

Non solo climate change

Stefano Salomoni
17 giugno 2022

Neanche il tempo di archiviare i risultati ambivalenti della recente Conferenza delle Parti (COP) sul clima di Glasgow che due nuovi studi della comunità scientifica risuonano come nuovi campanelli di allarme, e la cui eco è purtroppo rimasta molto in secondo ordine nell’opinione pubblica, ormai tutta concentrata sul tentativo russo di riscrivere le carte geografiche europee e con esse l’intero sistema internazionale che ci accompagna dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Innanzitutto, il recente “Stato del Clima” con cui l’Organizzazione Metereologica Mondiale (World Metereological Organization - WMO) fotografa ogni anno lo stato del clima terrestre, ha registrato nel 2021 un ulteriore deterioramento di tutti quegli indicatori - temperature, concentrazioni di gas serra, livello dei mari e loro acidificazione - che registrano lo stato di salute del clima terrestre. Deterioramento che purtroppo conferma i più foschi scenari prospettatici con la seconda parte del sesto assessment dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), focalizzata sugli impatti sull’ambiente e sulle società umane del cambiamento climatico: avverte che molti dei fenomeni che già oggi si iniziano a intravedere - si pensi alle ondate di calore che hanno investito negli ultimi anni diverse aree del Pianeta, dal Canada, all’Europa, all’’India e all’Australia – saranno sempre più diffusi e pervasivi.

Già oggi, infatti, più del 40% della popolazione mondiale è già stata toccata dagli effetti diretti di questi cambiamenti. Ma i loro effetti non si fermeranno qui, avverte il report. Da un lato si avrà che sempre più questi cambiamenti avranno effetti irreversibili sui livelli di biodiversità, elemento chiave per la resilienza e il mantenimento degli ecosistemi locali, del Pianeta; dall’altro ci si aspetta una forte accelerazione nel degrado delle terre e delle risorse idriche terrestri, entrambi elementi necessari per il sostentamento non solo delle comunità umane locali ma anche di tutto l’ecosistema. La crisi climatica sta accelerando e le sue conseguenze si stanno allargando e prendono contorni specifici che investono la tenuta ambientale del Pianeta in tutte le sue declinazioni.

Date le premesse, suona alquanto stridente che, sconosciuta non solo ai più ma anche alla gran parte degli addetti ai lavori, si sia svolta tra il 9 e il 20 maggio 2022 ad Abidjan in Costa d’Avorio un’altra COP, la COP 15, dedicata alla lotta alla desertificazione promossa dalle Nazioni Unite. Benché infatti il termine COP sia venuto sempre più nell’immaginario collettivo a designare l’incontro annuale in cui le diverse parti (da cui il nome) si ritrovano a discutere di cambiamenti climatici, in realtà questo termine è molto più generale e serve a indicare l’organismo cui è demandata l’effettiva implementazione di una convenzione internazionale, che nel diritto internazionale altro non è che un trattato internazionale vincolante siglato da due o più parti. Di COP, pertanto, ve ne sono molte, così come molti sono le convenzioni internazionali.

Se però ci limitiamo al solito ambito ambientale, la Storia ci riporta al dibattito avviato a partire dagli anni Settanta dello scorso secolo e che ha avuto entrambi i suoi due momenti più topici nel corso del 1972. Il primo è stato la pubblicazione del report “I limiti dello sviluppo”, da parte del Club di Roma, in cui per la prima volta furono scientificamente portate le argomentazioni inerenti al fatto che le risorse naturali, fin ad allora percepite sostanzialmente come infinite e immutabili, fossero in realtà ben limitate e ponessero un serio limite alle possibilità di crescita della civiltà umana. Il mondo e le sue risorse sono finiti e l’Uomo deve fare i conti con questa finitezza. Il secondo è stata la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano di Stoccolma, in cui si pose l’accento, anche qui per la prima volta, sulla necessità di una collaborazione internazionale volta alla salvaguardia di tutte quelle risorse naturali che sono alla base del sostentamento e dello sviluppo umano. Il dibattito allora avviato portò nei vent’anni successivi al famoso Summit della Terra di Rio de Janeiro del 1992 dal quale sono poi scaturite le tre convenzioni chiave della cooperazione internazionale in tema di ambiente: la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change - UNFCC), la Convenzione sulla diversità biologica (Convention on Biological Diversity - CBD) e infine la Convenzione contro la desertificazione (United Nations Convention to Combat Desertification - UNCCD).

Per ovvie ragioni, vista la trasversalità e la portata delle sue implicazioni, la Convenzione sui cambiamenti climatici ha presto preso la ribalta nell’agenda pubblica della maggior parte dei Paesi, nonostante altalenanti comportamenti da parte di alcuni (per esempio il ritiro USA sia dall’accordo di Kyoto che da quello di Parigi) o avvenimenti, quali la crisi finanziaria del 2008, quella del debito sovrano europeo del 2011 o l’aggressione russa in Ucraina nel 2022, la cui portata storica ne ha temporaneamente offuscato l’importanza.

Ciò detto, anche le altre due Convenzioni, seppure più in sordina e più lentamente (sono entrambe alla loro 15esima Conferenza della Parti, mentre quest’anno si terrà la ventisettesima COP per il clima), hanno proseguito il loro percorso cercando sia di darsi importanti obiettivi sullo stile di Parigi – per esempio, provando a raggiungere un accordo che porti a considerare entro il 2030 almeno il 30% delle aree del Pianeta come aree protette – o intestandosi e promuovendo attivamente importanti iniziative – come la Grande Muraglia Verde in Africa – con forti implicazioni sia globali che regionali. Percorsi che, con il propagarsi della nostra comprensione dei complessi sistemi ambientali in cui la nostra civiltà è inserita, sono andati sempre più intrecciandosi tra loro tanto che già oggi sta iniziando a verificarsi, almeno in certi ambienti, un ulteriore aggiornamento del lessico. Proprio come già avvenuto in passato quando si è passati dal parlare del “riscaldamento globale” al parlare di “cambiamento climatico”, ad usare i nuovi termini di “crisi ecologica”, “crisi sistemica planetaria” e “global change”.

Contemporaneamente assistiamo al moltiplicarsi di studi e iniziative comuni tra le diverse Convenzioni. Così vi è stata la pubblicazione, nel corso del 2021, di un report congiunto tra IPCC e IPBES – i due fora scientifici afferenti rispettivamente all’UNFCC e alla CBD – sul nesso tra cambiamento climatico e biodiversità. Vi sono state inoltre diverse iniziative promosse a latere della COP climatica di Glasgow, quali per esempio l’impegno a fermare e invertire il processo di deforestazione entro il 2030.

Ma mentre la comunità scientifica fa grandi passi verso la convergenza delle tre grandi Convenzioni ambientali verso un’unica consapevolezza ecologica, molto più a rilento stanno andando la politica e il dibattito pubblico. Con eccezioni. La Cina per esempio, approfittando anche dell’assenza degli Stati Uniti (unico Paese al mondo insieme allo Stato del Vaticano a non aver sottoscritto la CBD), in linea con il suo tentativo di proiezione di soft power in quanto “civiltà ecologica”, ne ha preso la leadership contribuendo così a porsi come partner affidabile e like-minded a soggetti quali l’Unione Europea che han fatto della politica climatico-ambientale un importante strumento sia di coesione interna sia di proiezione internazionale. Secondo obiettivo di Pechino: attirare a sé aree e soggetti più fragili, come il Sud-Est asiatico o ancora di più il continente africano, che vedono in questo posizionamento cinese un’alternativa più attenta al rispetto delle loro realtà, a differenza di un capitalismo occidentale storicamente percepito come predatorio e votato al degrado ambientale locale pur di garantire livelli di elevato benessere ai Paesi di origine. E questo lo si può vedere sia in un atteggiamento europeo ambivalente volto a ergersi quale terzo polo, spinto in tal senso tanto dal mercantilismo tedesco quanto dalle ambizioni di autonomia strategica francese, nella sfida per la supremazia planetaria tra Stati Uniti e Cina. Atteggiamento ambivalente temporaneamente “nascosto” dall’attuale ritrovata compattezza transatlantica a fronte dall’aggressione russa dell’Ucraina.

Ma i risultati di un simile approccio cinese li vediamo anche nella grande influenza che viene sempre più esercitata in un continente come quello africano dove, accanto alla crescente presenza economica e politica, la Cina sta imponendo anche una narrativa di sviluppo e di sistema delle relazioni internazionali differente da quello proposto negli ultimi settant’anni dagli Stati Uniti. E i risultati di quest’opera si sono visti chiaramente durante la votazione ONU sulla guerra in Ucraina scatenata dalla Russia di Putin, dove la stragrande maggioranza dei Paesi africani, e in misura di poco minore asiatici, si sono trovati allineati dietro la neutralità e l’equidistanza tra la parti propugnata dall’establishment cinese.

Non che gli occidentali siano stati del tutto assenti su questo versante. Un Paese come la Francia, sempre molto attenta alle dinamiche africane visto il suo perdurante retaggio coloniale, e su sua spinta l’Unione Europea vi pongono una forte attenzione. Macron, complice anche la Presidenza francese dell’UE, è stato per esempio l’unico leader occidentale di peso a prendere parte ai lavori alla COP 15 di Abidjan, dove ha ribadito sia il supporto per il progetto della Grande Muraglia Verde africana sia tutta una serie di iniziative per combattere il degrado delle terre e favorire soluzioni agricole verdi che possano al contempo contribuire allo sviluppo e al contenimento del degrado ambientale locale. Entrambi elementi causa di conflitto e necessari alla stabilizzazione di un luogo come il Sahel in cui si sta giocando un’importante partita geopolitica, sia con attori locali (estremisti islamici) che internazionali (russi).

Ma l’assenza e la disattenzione ingiustificata in questi ambiti di un player così importante come gli Stati Uniti, nei quali la Presidenza Biden (per quanto molto attenta alla questione climatica di cui ha fatto una lotta simbolo della propria amministrazione, così come incarnato dalla firma del decreto per il rientro nell’accordo di Parigi quale suo primo atto come Presidente) non ha investito alcun capitale politico. L’America lascia così ampi spazi di iniziativa ad altri attori la cui visione dei rapporti di forza e delle regole del sistema internazionale rischiano di essere pericolosamente confliggenti con quelli attuali ed a cui le iniziative isolate di alcuni Stati membri dell’Unione Europea o dell’Unione stessa possono solo parzialmente compensare.

Così come la comunità scientifica ha già posto le basi per una convergenza dei diversi negoziati internazionali sul clima, la biodiversità e la lotta alla desertificazione, così anche la politica deve prendere atto di questa fondamentale convergenza verso un’unica sfida sistemica. Questo si traduce in un’attenzione politica e mediatica comparabile tra i diversi negoziati con lo scopo di offrire una soluzione e una narrativa in grado di rispondere alla crisi ecologica nelle sue diverse sfaccettature. Ciò significa porre obiettivi e target sia a livello di sistema Paese sia di singolo operatore economico che tengano conto non solo dei livelli di emissioni climalteranti ma anche dell’impatto in termini di biodiversità e di degrado delle terre e degli spazi in cui si opera. E ciò significa creare un sistema di valutazione e di finanziamento che si basi su un impatto ambientale a 360 gradi. In sostanza, occorre creare iniziative e alleanze internazionali che possano segnare un passaggio, non solo terminologico, da una geopolitica del clima a una dell’ecologia.

Il rischio è quello di lasciare l’iniziativa ad altri attori che possano riempire tale vuoto, o ancor peggio portarci a vincere la battaglia per il clima - contenimento delle emissioni climalteranti - ma ritrovarci ad aver perso la guerra per l’ambiente – sesta estinzione di massa, degrado delle terre e dei mari - con tutte le conseguenze, politiche, sociali ed economiche che ne potrebbero derivare. 

 

Il presente contributo è frutto di riflessioni e considerazioni riferibili esclusivamente all’autore dello stesso ed espresse a titolo personale. 

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economia GREEN Geoeconomia climate change
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AUTORI

Stefano Salomoni
Analista Geopolitico

Image Credits: Photo by Mike Erskine on Unsplash

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