“Il vostro obiettivo per il momento dovrebbe essere quello di insegnare loro le basi, educarli ad essere veri musulmani, e solo fra alcuni anni allora sarete in grado di introdurli a norme più dure perché le persone così capiranno che cosa ci si aspetta da loro”. Chi parla, anzi scrive, è Abou Mossab Abdelwadoud (nom de guerre di Abdelmalek Droukdel), leader di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqim), in una lunga lettera pedagogica ai suoi seguaci di stanza in Mali. La missiva è stata ritrovata in un nascondiglio jihadista nel paese africano insieme ad altre, dello stesso stile, particolarmente significative per comprendere la strategia della rete islamista armata creata da Osama bin Laden e niente affatto scomparsa con la sua dipartita.
Meno attraente per le nuove leve del jihad rispetto al Daesh (acronimo arabo dell’anglofono Islamic State of Iraq and Syria, ndr), il cui virus è stato inoculato con successo anche nel Sinai egiziano e in Libia, Aqim manifesta vivo interesse per l’Africa occidentale da anni, ma adesso, in tandem con alleati autoctoni sta, per così dire, scendendo verso il Golfo di Guinea. Là dove c’è molto da “aggiustare”, nell’ottica distorta dei veri musulmani salafiti: la presenza degli stranieri è ingombrante, in particolar modo quella francese (ma non solo); soprattutto là dove musulmani e infedeli convivono seppur fra alti e bassi, tensioni socio-economiche ed etniche e rivalità politiche. Si tratta dunque di società miste da sconvolgere, riportare sulla retta via, plasmare. E si tratta, non si può negare, di mettere le mani su risorse minerarie, naturali e petrolifere ingenti.
Ecco, quindi, che l’emiro algerino Abdelwadoud deve aver riflettuto su come penetrare quei territori facendo presa sulla popolazione. Gli interessano Mauritania, Mali, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Senegal (delle brame jihadiste nei confronti di Dakar si sa grazie a una doppia informativa franco-americana che ha messo in guardia il Senegal già un paio di anni fa): tutti paesi non ancora nel mirino dei colleghi di Boko Haram, coagulatisi piuttosto intorno alle nazioni del Lago Ciad, e nemmeno dal sedicente Stato Islamico. Un elemento da tenere a mente, questo, perché per il controllo dell’Ovest africano, in un futuro non troppo lontano potrebbero venire allo scontro i gruppi islamisti dominanti in Africa.
Così come risulta inquietante, nell’analizzare l’eloquio dell’algerino ex membro del Gruppo salafita per la preghiera e il combattimento, l’atteggiamento paterno e, allo stesso tempo, pragmatico della dirigenza di al-Qaeda nel Maghreb: il Mali – e di riflesso anche le altre popolazioni minacciate – è da trattare come un bambino. Da “tirare su”, da “allevare”. La tecnica usata anche in Yemen, dicono gli esperti di pensiero politico qaedista: e adesso il risultato è che, nel conflitto tribale in corso a Sana’a, è pressoché impossibile distinguere i qaedisti dai jihadisti locali sunniti. Stesso percorso, stesse idee, stessi obiettivi. Potenzialmente, dunque, gli eredi di bin Laden sarebbero assai più pericolosi – perché avveduti – dei tagliagole di Abu Bakr al-Baghdadi, sedicente califfo iracheno, abile manovratore di tecniche mediatiche, truculenza, denaro e psicologia umana, ma portatore di un modello totalitario impossibile da reggere sul lungo periodo per popolazioni soggiogate dall’oggi al domani, ancora memori di stili di vita differenti.
Fra Aqim e Daesh non è ancora amore e si spera che mai lo sia. Il movimento integralista al-Mourabitoun (Le sentinelle) è testimonianza viva della spaccatura fra le due attuali colonne del jihad in Africa: una parte di esso, fedele al fondatore Mokhtar Belmokhtar, noto anche come l’emiro della IX regione, cioè il deserto algerino, ha sempre ribadito di non riconoscere il califfo Baghdadi e il suo progetto. L’altra, scismatica, è accorsa sotto l’ombrello di Daesh nel maggio del 2015, a seguito delle indicazioni del separatista emiro Walid al-Sahraoui.
Il trauma interno ha costretto i Mourabitoun a riaffermare la legittimità indiscussa di Belmokhtar con una nuova denominazione: al-Qaeda nell’Africa occidentale (luglio 2015), sorella di Aqim.
È da quel momento che si riscontra in Aqim e sodali un’accelerazione nelle azioni violente nei territori prescelti: come se, in preda a un complesso di inferiorità nei confronti del marketing terroristico di Daesh, gli jihadisti di Ahmed al-Zawahiri, succeduto a bin Laden nella guida della “Base” (al-Qaeda, appunto), avessero optato per una spettacolarizzazione delle loro azioni africane. L’attentato – poco seguito dai mezzi di comunicazione internazionali, per la verità – avvenuto presso l’hotel Nord-Sud di Bamako, capitale maliana, dove hanno il loro quartier generale i rappresentanti dell’Unione europea nel paese (21 marzo 2016), è solo l’ultimo di una serie iniziata, in modalità serrata, la scorsa estate: nessuna rivendicazione è giunta, ma probabilmente solo perché l’assalto al complesso non ha avuto esito “positivo”. Gli investigatori propendono comunque per la pista qaedista.
A ritroso nel tempo, organizzati dalle “sentinelle” islamiste, ricordiamo: Grand-Bassam, in Costa d’Avorio (13 marzo 2016); Ouagadougou, Burkina Faso (17 gennaio 2016); Bamako, Mali (20 novembre 2015); e ancora in Mali, l’8 agosto 2015 a Sévaré e il 6 marzo a Bamako presso il bar-ristorante La Terrasse.
Un filo rosso inesorabile che indica due percorsi diversi: da un lato, la cosiddetta “ossessione” per il Mali, travolto già nel 2012 a nord e riassaltato nel centro e nel sud nel 2015, sarebbe frutto di Aqim, suggeriscono informazioni di intelligence; dall’altro, l’“allargamento” a Burkina Faso e Costa d’Avorio, preteso da al-Qaeda nell’Africa occidentale/al-Mourabitoun, per colpire i francesi, in prima linea in tutta l’area con l’operazione anti-terroristica Barkhane.
Su frizioni interne in materia di reclutamento (Aqim ha sempre relegato a posizioni medio-basse i jihadisti di colore, ma alcuni leader pare non siano più d'accordo), gerarchia, condivisione delle decisioni, strategia territoriale è forse possibile lavorare per spaccare un fronte pericolosamente in espansione. Rafforzando, in parallelo, la capacità reattiva e preventiva dei governi africani: quello ivoriano, per esempio, avvertito per tempo dell’addensarsi delle nubi di Aqim al confine, ha messo in piedi un buon dispositivo di sicurezza nelle due “capitali”, Abidjan e Yamoussoukro, e nelle zone sensibili, riuscendo a sventare svariati assalti negli ultimi sei mesi.
Un modello di collaborazione con alleati stranieri fruttuoso, perché confinato al livello, appunto, di cooperazione. Non di neo-colonialismo dirigista.