La reazione all'invettiva di vendetta lanciata da alcuni esponenti della World Bnei Akiva è virale. Dopo la pretesa di farsi giustizia da sé per vendicare i tre ragazzi uccisi a Hebron, la maggioranza non silenziosa dei giovani israeliani ha cominciato ad alzare la voce, sia in patria sia all'estero, così come sui social network. «Not in my name». I giovani ebrei moderati, razionali ed educati ai principi dello stato di diritto e della società civile rifiutano gli estremismi e li isolano. È la prima volta, d'altra parte, che si percepisce uno scollamento tra la Israele che noi conosciamo - plurale e democratica - e un'inaspettata controparte radicale, la quale vorrebbe «uccidere tutti gli arabi». Alcune ragazze israeliane si sono fatte un selfie con questo messaggio. E hanno poi postato la foto su Twitter. Il fenomeno è preoccupante. Ma quella israeliana è una società matura, capace di arginare le derive radicali. Giorni fa, Haaretz ha pubblicato un editoriale di Gideon Levy - firma polemica del giornalismo israeliano - in cui, in poche parole, si attribuiva al paese il non desiderio di raggiungere la pace. «Se davvero volesse la pace - scrive Levy - non andrebbe avanti con la politica di insediamenti nei Territori»(1). Forse si tratta di un'accusa eccessivamente perentoria e generalista. Tuttavia, l'esecuzione sommaria del giovane Mohammed Abu Khdeir sta facendo riflettere. La macchina dello stato (istituzioni politiche, magistratura e polizia) si è mossa. Dalla sua ha la maggioranza della popolazione. È necessario che quell'omicidio resti un caso isolato.
Israele è comunque un paese strano. Nei cieli del kibbutz di Sde Boker, dove è custodito il lascito politico di David Ben Gurion, echeggiano i boati dei razzi sparati dalla Striscia di Gaza su Be'er Sheva. Il silenzio del deserto del Negev è rotto dal grattugiare degli elicotteri che sorvolano questo nulla di pietra, sabbia e sole. Lungo la strada verso sud s'incrocia un convoglio militare che trasporta due Merkava. Sono queste alcune piccole anticipazioni dell'ennesima operazione militare firmata dal governo Netanyahu. Tzahal ha detto a 40mila riservisti di stare pronti a scendere sul sentiero di guerra. Al di là dei nomi - questa volta l'operazione contro Gaza si chiamerà Protective Edge - il canovaccio è sempre lo stesso: da un drammatico fatto di cronaca si degenera in una guerra. Da un fatto isolato si rischia di cadere in un coinvolgimento generale di due popoli che non riescono a trovare una soluzione di convivenza e coesistenza. Israele va verso la guerra.
Ma Israele è in guerra? La stranezza di questa nazione risiede nel suo affastellarsi di contraddizioni. Mentre l'Idf torna a indossare i suoi colori verde oliva c'è un'Israele apparentemente insensibile a questi fatti. Eilat è una piccola Las Vegas, chiassosa meta di turisti russi dove la lettura dei quotidiani resta un'attività di secondo piano. Lungo il Mar Morto i giovani americani dei Birth Right Program visitano pacificamente la terra promessa dei loro padri, dei loro nonni o di chissà quale altro antenato. Non sembrano accorgersi che i loro coetanei israeliani rischiano di essere buttati sulla linea di fuoco. Intanto, per la seconda volta in neanche due anni, anche a Tel Aviv sono suonate le sirene antimissile.
«Questo suono fa parte della nostra quotidianità», dicono per le strade, con un lieve sorriso volto più a tranquillizzare se stessi che gli interlocutori stranieri. È vero, nella sua vita di tutti giorni, l'israeliano deve includere problemi e successi in famiglia, sul posto di lavoro, così come una condizione di conflitto carsico, che può scoppiare da un momento all'altro. Oggi Israele è in guerra. Ma vive in pace. Su Tel Aviv cala il tramonto e con esso la tensione. Perché il terrore e la paura si sconfiggono con la più normale semplicità. Andando avanti.
1. http://www.haaretz.com/mobile/1.601112
Antonio Picasso, giornalista freelance