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GLOBAL CITIES

Nuove capitali: realtà o utopia?

Tobia Zevi
20 maggio 2022

La tentazione dei governanti per la costruzione di capitali ex novo è decisamente antica. Per unificare il suo regno, ma soprattutto per dare gloria al proprio nome, pare che il Faraone Menes, unendo Alto e Basso Egitto intorno al 3150 a.E.V., edificò Menfi proprio al centro dell’immenso territorio. La questione è tornata alla ribalta recentemente per via dei progetti indonesiani, ma ha in effetti attraversato tutto il ’900 e rimanda a due temi che si intrecciano: da un lato la valutazione politica sul trasferimento delle funzioni di una capitale, dall’altro la necessità di progettare città paradigmatiche e futuribili o, come diremmo oggi, sostenibili, vivibili, inclusive. Le capitali progettate sono inevitabilmente dei veri e propri laboratori a scala reale dove sperimentare le teorie urbanistiche più in voga. Possiamo trarre qualche insegnamento dalle esperienze passate?

 

Una smart city nella giungla

Dal 18 gennaio 2022 la nuova capitale dell’Indonesia ha un nome: Nusantara o, più esattamente, Ibu Kota Negara Nusantara (capitale nazionale di Nusantara). Che altro sappiamo della città nascitura? Innanzitutto che sostituirà l’attuale Giacarta. Le ragioni sono purtroppo facili da comprendere: Giacarta sta affondando a una velocità media stimata di 1,5-10 cm. all’anno. Un recente studio dell’Agenzia nazionale di ricerca e innovazione (Badan Riset dan Inovasi Nasional, BRIN) stima che, a meno di radicali cambiamenti, il 25% del territorio urbano sarà sommerso entro il 2050. Già ora circa la metà dell’agglomerato è in effetti sotto il livello del mare. La prima causa del cedimento è la natura paludosa del terreno. Giacarta è una delle città più congestionate dal traffico al mondo e si estende su un’area di 661,5 km² lambita dal mare, attraversata da ben tredici fiumi, su cui si muovono e vivono circa 20 milioni di abitanti.. Ad aggravare la situazione, poi, contribuisce il cambiamento climatico che innesca cicloni, alte maree e che, notoriamente, innalza il livello del mare.

Da qui la decisione del presidente Joko Widodo di traslocare la capitale, come già immaginato dallo stesso Sukarno, padre della patria e presidente tra 1945 e 1967. La scelta è ricaduta sulla regione del Kalimantan, nel Borneo, la terza isola più grande del mondo. Tre sono le ragioni fondamentali: le condizioni ambientali e geologiche favorevoli rendono terremoti, inondazioni ed eruzioni vulcaniche meno frequenti; dal punto di vista politico, la nuova collocazione sarà più centrale rispetto al resto dell’arcipelago; infine abbandonare Giava - la più piccola delle cinque isole principali del Paese, fulcro per decenni delle politiche di sviluppo dei precedenti governi – consentirebbe di ridurre il divario economico con le altre isole dell’arcipelago. Basti pensare che attualmente il 58% del Prodotto interno lordo indonesiano è prodotto a Giava.

Ma quanto tempo ci vorrà per trasformare questa idea in realtà? E quanti soldi?

Widodo vorrebbe la capitale operativa già nel 2024, prima della fine del suo mandato. Sembra difficile: l’inizio dei lavori, previsto per il 2019, è infatti slittato a causa della pandemia.  Attualmente il valore stimato del progetto è compreso tra i 30 e 40 miliardi di euro, di cui solo il 20% fornito dallo Stato, con il resto che dovrebbe essere garantito da aziende e fondi privati. Nusantara si svilupperà su 1.800 kmq di terreno, avrà alloggi per un milione e mezzo di funzionari pubblici e ospiterà il nuovo palazzo presidenziale, oltre alle sedi del Parlamento e dei Ministeri. Sarà una capitale smart e tecnologica, improntata alla sostenibilità.

Ed è proprio la sostenibilità del progetto a essere oggetto di polemiche. Per iniziare i lavori è previsto il disboscamento di una giungla tra le più ricche in biodiversità del pianeta, in cui oggi vivono indisturbati oranghi del Borneo, orsi malesi e scimmie nasiche. Una premessa assai poco green.

 

Utopie concrete e cattedrali nel deserto

Tre secoli fa, George Washington volle costruire Washington DC come collegamento tra gli Stati del Nord e del Sud. La capitale politica, fondata ex novo nel 1790, poggiava su un progetto urbanistico talmente forte da essere a lungo additato come “piano urbano senza città”. Il masterplan, dell’architetto di origini francesi Pierre Charles l’Enfant, disegnava una capitale monumentale con grandi parchi aperti. Per non offuscarne la vista prescriveva che gli edifici fossero regolamentati in altezza. Infatti la legge vieta a tutt’oggi la costruzione di edifici che superino di oltre sei metri la larghezza della strada su cui poggiano. Washington, al contrario delle grandi metropoli americane, è una città senza grattacieli. Questo ha fortemente influito sullo sviluppo urbano e demografico. La penuria di alloggi ha determinato il caro prezzi, l’allargamento del territorio cittadino e i relativi problemi di traffico e trasporto.  Tanto che Washington, considerata la più europea tra le città americane, è rimasta una capitale politica, un centro culturale e di ricerca, ma non è mai diventata una capitale economica. Si colloca infatti al 24° posto nella classifica delle città più popolose degli Stati Uniti, con i flussi tipici del pendolarismo legato alle funzioni federali e del relativo indotto. E c’è di più: l’architettura istituzionale americana ritrae la natura “artificiale” della capitale negando a Washington i due rappresentanti nel Senato che invece hanno tutti gli altri Stati, tra cui pure DC è annoverata.

Un destino simile è quello di Canberra, capitale amministrativa costruita nell’entroterra australiano, tra Sidney e Melbourne, a partire dal 20 febbraio 1913 e su progetto dei coniugi architetti Walter e Marion Griffin di Chicago.  Il duo, ispirato dal movimento delle Città Giardino, disegnò un piano urbano con centri focali circondati di aree verdi, tagliati da diagonali che delimitavano i diversi settori della città.  Oggi il giudizio sul design di Canberra è controverso: da un lato è considerata una delle capitali più vivibili del mondo; d’altro canto, proprio la vastità delle sue aree verdi la rende un insieme di entità fisicamente segregate, penalizzando la coesione, l’integrazione sociale e anche lo sviluppo. L’economia cittadina è ancora indissolubilmente legata al governo federale, che resta il maggior datore di lavoro dell’area, e la popolazione rimane molto inferiore a quella di Sidney e Melbourne (400.000 abitanti contro gli oltre 4 milioni delle due grandi metropoli).

New Delhi, capitale dell’India, è tra gli esempi più noti, e tutto sommato più riusciti, di capitali costruite da zero. Progettata dagli inglesi Sir Edwin Lutyens e Sir Herbert Baker, fu creata a partire dal 1911 per ospitare la sede del governo del Raj britannico, sostituendo a quel tempo la popolosa metropoli di Calcutta. Con un piano regolatore che potrebbe essere inquadrato nel movimento della “City Beautiful”, New Delhi fu costruita al limite della vecchia Delhi, per ospitare circa 70.000 abitanti. Il suo impianto rigorosamente geometrico, fatto di ampi viali e spianate, contrastava sensibilmente con il caotico e intricato tessuto urbano della città vecchia. Oggi New Delhi è stata assorbita in un'area metropolitana che supera i 28 milioni di abitanti, cresciuta in modo più libero e capriccioso rispetto all’impianto originale. La forte spinta demografica ha reso la città non solo capitale politica ma anche protagonista della crescita economica del Paese.

Capitale provvisoria dello Stato d’Israele dal 1948 al 1980, Tel Aviv è stata fondata nel 1909, durante il mandato britannico, da 66 famiglie guidate dal futuro sindaco Meir Dizengoff. L’intenzione era quella di creare una città moderna e spaziosa sulle sponde del Mediterraneo come ampliamento della sovraffollata Giaffa, che la leggenda vuole fondata dal figlio di Noé.  Fu quindi costruita la Città Bianca, che deve il suo nome agli edifici in stile Bauhaus degli anni ’30. L’area è patrimonio dell’UNESCO e poggia sul piano urbanistico di Sir Patrick Geddes (1925-27), grande teorico che solo a Tel Aviv implementò su larga scala la sua visione ispirata nuovamente alle “Città giardino”, Geddes ha creato un’entità urbana in grado di soddisfare i bisogni fisici, economici, sociali e umani.  Quest’approccio continua a riflettersi nel più ampio piano generale della città e contribuisce a farne uno degli ecosistemi più smart e vivibili del pianeta.

Diverso il caso di Brasilia, costruita in soli 41 mesi, dal 1956 al 21 aprile del 1960. Un’utopia architettonica che voleva assurgere a città simbolo del Brasile e che si estende per 5.892 kmq sull’Altipiano Centrale. Immaginata in forma di aeroplano dall’urbanista Lucio Costa, affiancato dall’architetto Oscar Niemeyer, secondo le teorie di Le Corbusier. L’idea era quella di costruire una nuova capitale che diffondesse progressi e benessere economico anche nelle aree interne del Brasile. Brasilia doveva essere una città senza eredità coloniale, senza architettura classica e barocca ma, soprattutto, senza baraccopoli. Un organismo con linee pulite e spazi monumentali, costruita per essere attraversata in automobile e non a piedi, assolutamente razionale quanto alla distribuzione delle funzioni (aree residenziali distinte da quelle governativa e da quelle a vocazione commerciale). Nonostante dal 1983 sia protetta dall’UNESCO in quanto pietra miliare nella storia dello sviluppo dell’architettura e dell’urbanistica, non è riuscita a conquistare il cuore dei suoi abitanti, che la considerano anonima e lontana dalla città a misura d’uomo sognata dai suoi ideatori. Oggi, con i suoi 4,8 milioni di abitanti, è una delle città più diseguali del mondo.

Meno artistica ma non meno ambiziosa la nuova capitale del Myanmar, Naypyidaw: un progetto di vanità militare, realizzato tra il 2002 e il 2012.  Costruita sotto il generale Shwe, è una città a compartimenti stagni, determinata a tenere lo Stato a distanza dai suoi cittadini. È organizzata in sei aree generali: la zona ministeriale, quella alberghiera, diplomatica, residenziale, il villaggio preesistente di Pyinmana e il quartiere militare. Segmenti distinti e separati da grandi superfici vuote, uniti solo da un’enorme rete autostradale. La scala di questa città è surreale: si estende per circa 7.057 kmq, nove volte la dimensione di New York City. Tutto è superdimensionato, soprattutto le strade, che hanno fino a venti corsie e si estendono a perdita d’occhio.  Nonostante l’elettricità sia affidabile e la connessione wi-fi veloce, quello che manca a Naypyidaw sono le persone. La città, che appare per lo più deserta, contava nel 2019 poco più di un milione di abitanti contro, per esempio, i quasi nove di New York.

Non ha ancora un nome, infine, la Nuova Capitale Amministrativa (NAC) d’Egitto, ma ha già un record: i 385,8 metri dell’Iconic Tower, l’edificio più alto di tutta l’Africa.  Voluta dal presidente al-Sisi a circa 45 km dal Cairo, la città al momento è un grande cantiere in mezzo al deserto dal costo previsto di 58 miliardi di dollari. L’inaugurazione, prevista per giugno 2021, è stata rinviata per via della pandemia. Si tratta di un’impresa a dir poco faraonica: la nuova città dovrebbe arrivare a coprire circa 700 kmq. Una volta completata avrà un Parco Centrale due volte più grande di quello di New York, il più grande edificio di culto del Medio Oriente e il più grande Teatro dell’Opera fuori dall’Europa, con una popolazione prevista di circa 6 milioni di persone. La città consumerà circa 650.000 metri cubi di acqua al giorno, una cifra imponente se confrontata con le risorse della nazione nordafricana.

Ma perché costruire una capitale nel deserto a pochi chilometri dal Cairo? Secondo alcuni, la scelta di spostare il governo tradisce la paura di manifestazioni di piazza, come quelle che decretarono la caduta di Hosni Mubarak nel 2011. Ma esistono anche motivazioni strategiche e demografiche: la crescita annuale della popolazione del Paese è tra le più alte del mondo. Quasi 2 milioni di persone all'anno, che vivono principalmente lungo le rive del Nilo, occupando solo il 10% del totale della superficie del Paese. Un quinto dell’intera popolazione vive al Cairo (21 milioni), di questi una larghissima parte nei cosiddetti “insediamenti informali”. Spostando i ministeri nella nuova capitale si allevierebbe sensibilmente la pressione sulle infrastrutture urbane.

 

Un dilemma Capitale

In conclusione, rimane attuale la questione affrontata da Jane Jacobs nelle sue ricerche: le città utopiche e disegnate a tavolino possono avere una marcia in più in termini di vivibilità e lungimiranza? Oppure è vero il contrario: una prospettiva intellettualistica, viziata di utopismo, non può che allontanarsi dalle necessità concrete che permeano le vite delle persone reali?

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