La situazione della sicurezza in Iraq è molto complessa e di primaria importanza da un punto di vista sia interno sia regionale. Come molti analisti temevano, la drastica riduzione della violenza durante il surge tra il 2007 e il 2008 si è dimostrata solo una breve parentesi determinata più dalla presenza americana sul territorio che da reali capacità operative delle forze irachene (Isf) o da una risoluzione dei problemi che erano all’origine di quella violenza. Dal 2012 gli attacchi si sono intensificati e le vittime sono aumentate: nel marzo scorso se ne sono contate 1009, un dato in linea con quelli registrati a partire dall’estate del 2013, ma che in realtà non si osservava dai primi mesi del 2008(1).
Le cause di questo conflitto interno al paese sono molteplici. Per prima cosa si deve ricordare lo scontro settario tra sunniti e sciiti che si lega strettamente alle critiche che da più parti sono ormai rivolte al primo ministro Nuri al-Maliki, accusato non solo di favorire la penetrazione di Teheran in Iraq, ma anche di gestire le forze di sicurezza e le leggi anti-terrorismo a suo favore al fine di eliminare i suoi oppositori politici. Ciò è testimoniato da diversi elementi, il più recente dei quali è relativo all’Independent High Electoral Commission, il comitato che può respingere la candidatura di coloro che hanno accuse di terrorismo pendenti o che erano collusi con il vecchio regime baathista. Come già accaduto in precedenza, tale pratica permette di estromettere, sulla base di prove minime o di semplici sospetti, gli avversari politici (a marzo erano già stati eliminati circa 400 possibili candidati(2)). Le forti pressioni politiche a cui il comitato è sottoposto sono testimoniate anche dal fatto che il 25 marzo i suoi membri si sono dimessi in massa, salvo poi ritornare sui propri passi pochi giorni dopo. La tendenza autoritaria e anti-sunnita del governo al-Maliki(3) ha esacerbato le posizioni critiche di gran parte dei sunniti che hanno intrapreso due strade: proteste, anche violente, contro Baghdad che hanno infiammato diverse città irachene nel corso del 2013; appoggio, più o meno aperto, ai gruppi più radicali tra cui al-Qaida, tornata a essere un attore importante della violenza irachena.
Un secondo elemento per comprendere quest’ultima risiede nel conflitto civile in Siria. Il confine tra i due paesi è lungo e passa attraverso un’area desertica difficile da controllare, che consente un facile passaggio di uomini e armi da una parte all’altra. Ciò si era verificato a partire dal 2003 quando dalla Siria passavano i combattenti stranieri che poi operavano in Iraq (e per questa ragione la Siria rappresentò una base logistica di primaria importanza), poi il flusso, dopo essersi quasi arrestato con il surge, riprese in senso contrario allo scoppio della guerra siriana dove agirono così elementi addestrati e con l’esperienza bellica irachena alle spalle. Malgrado la frattura tra Jabhat al-Nusra e Isis circa strategie, tattiche e guida politica è indubbio che i due conflitti siano collegati.
È importante però analizzare la tipologia di violenza. Nel paese la criminalità comune, la corruzione e, specie con l’avvicinarsi delle elezioni, gli attacchi mirati contro i candidati (il 7 febbraio è stato ucciso Hamza al-Shammari, capo della tribù Shammar, mentre il 10 il presidente del Parlamento, Usama al-Nujaifi, è riuscito a sopravvivere a un tentativo di assassinio a Mosul) restano un problema di primo piano, ma sono le rinnovate capacità operative dell’Isis a far temere il peggio. Nel corso del 2013 il gruppo aveva mantenuto un alto ritmo operativo attraverso la campagna “breaking the walls” che aveva impiegato massicciamente autobombe al fine di colpire pesantemente anche le forze armate irachene e a liberare dalle carceri diversi esponenti del gruppo. Tale campagna ha dimostrato non solo il ritorno in grande stile di al-Qaida in Iraq, ma anche le sue aumentate capacità tattiche (testimoniate dal modo in cui gli attacchi sono stati condotti: attraverso la pianificazione e sincronizzazione di autobombe, attacchi suicidi e movimenti tattici di gruppi di fuoco) e logistiche (l’enorme massa di autobombe e armi in generale rileva un flusso di rifornimenti verso l’Iraq e interno al paese piuttosto elevato)(4). Queste capacità, unite al malcontento sunnita, hanno permesso all’Isis di ottenere il controllo di parte delle principali città della provincia di al-Anbar, Ramadi e Falluja (dove presumibilmente non si terranno le elezioni), e di proseguire la sua marcia di avvicinamento alla capitale. Infatti, nelle ultime settimane nei pressi della cittadina di Sulaiman Bek si sono intensificati i combattimenti per il controllo della provincia di Diyala a nord della capitale(5). L’obiettivo di questa campagna è quello di arrivare a Baghdad conquistando passo a passo villaggi e città che permettano di costruire nuove basi logistiche e di diventare poi trampolini di lancio per le operazioni successive.
Tale situazione deve far riflettere visti i collegamenti con la crisi siriana: quest’ultima unita all’incapacità del governo di Baghdad finora dimostrata di controllare la recrudescenza di al-Qaida in Iraq rischia di creare un territorio libero per i jihadisti alle porte dell’Europa e affacciato sul Mediterraneo.