Se una guerra per il primato tecnologico poteva sembrare una remota ipotesi fino a qualche anno fa, il contrasto tra Cina e Stati Uniti è ormai esplicito e dichiarato. Gli Stati Uniti, infatti, hanno avanzato negli ultimi anni diverse misure per ridurre la dipendenza economica dalla Cina e contrastarne l’ascesa tecnologica. Il punto di svolta di questo percorso è la pubblicazione del piano Made in China 2025 del 2015 in cui Pechino affermava l’obiettivo di diventare leader in dieci settori critici. Come reazione, l’amministrazione Trump ha promosso nel 2018 la propria Guerra Commerciale indirizzata, oltre a un ribilanciamento dell’avanzo commerciale cinese, proprio a penalizzare i settori coinvolti dal piano. Successivamente anche l’Unione Europea, il Giappone, la Corea del Sud e l’India hanno promosso propri piani di messa in sicurezza e di sganciamento dalla Cina delle filiere di produzione dei settori critici, su tutti i semiconduttori. Con Biden, tuttavia, il contrasto è diventato ancora più esplicito.
Biden mette la Cina nel mirino
“Continueremo ad investire per potenziare la competitività americana a livello globale”. È uno dei passaggi iniziali della prefazione di Joe Biden della nuova National Security Strategy (NSS) dell’amministrazione statunitense, pubblicata lo scorso 13 ottobre. Un documento chiave a livello sia geopolitico che geoeconomico in quanto mette a fuoco le priorità strategiche della Casa Bianca per continuare a rimanere leader in un mondo che “non è più quello del post-Guerra Fredda”, ma in cui la dimensione conflittuale sta diventando sempre più preponderante. Non solo a causa della Russia per la “brutale” aggressione nei confronti dell’Ucraina, ma soprattutto a causa della Cina che – recita il documento – “è l’unico attore che intende riformare l’ordine internazionale e che ha le risorse economiche, diplomatiche, militari e tecnologiche per farlo”. Pechino viene dunque presentata come un rivale sistemico che può mettere a rischio gli interessi strategici e la sicurezza economica degli Stati Uniti; ed è rivelatore a questo proposito il fatto che nel documento non si parli mai di instaurare una dinamica cooperativa con la Cina, ma che al più si parli di “competizione responsabile”.
Per quanto riguarda le questioni economiche, l’orientamento strategico degli USA viene “messo a terra” a livello di politica commerciale e industriale. In riferimento alla prima, la NSS evidenzia come prioritari accordi economici “di nuova generazione” come l’Indo-Pacific Economic Framework o il Trade and Technology Council che, pur non configurandosi come veri e propri trattati di libero scambio, hanno però lo scopo di rafforzare la cooperazione commerciale e in tema di investimenti con partner cruciali proprio in chiave di contenimento cinese: i Paesi del Sud-Est asiatico da una parte, l’Unione Europea dall’altra.
In tema di politica industriale, invece, la Casa Bianca ha pubblicato in parallelo alla NSS la nuova National Strategy for Advanced Manufacturing, che mette a sistema gli strumenti adottati dal governo per vincere la sfida della supremazia tecnologica e disinnescare le pratiche sleali adottate dalla Cina. Al centro di questi strumenti c’è il CHIPS and Science Act, approvato a luglio e che prevede 50 miliardi di dollari in investimenti pubblici nel tentativo di riportare gli USA a essere leader in settori sempre più cruciali come quelli dei semiconduttori e dell’advanced computing. Per raggiungere questo obiettivo, però, secondo l’amministrazione Biden non basta investire più risorse nelle industrie domestiche, ma occorre anche mettere i bastoni fra le ruote al proprio rivale: ed è per questo che le restrizioni all’export tecnologico introdotte di recente dagli USA possono essere considerate come una “dichiarazione di guerra economica” nei confronti della Cina. Tali misure prevedono sostanzialmente un divieto alle esportazioni di chips destinati ad applicazioni di intelligenza artificiale e computer ad alta capacità di calcolo, ai macchinari necessari per la produzione di semiconduttori, e un’espansione della lista di aziende cinesi a cui è vietato l’acquisto di prodotti americani in questi settori se non previa autorizzazione da parte delle autorità USA. Si tratta dunque di un deciso giro di vite teso a colpire uno dei punti deboli di Pechino, ovvero la dipendenza dall’estero dei componenti più avanzati dal punto di vista tecnologico (la Cina è infatti in ritardo nella produzione di chips di ultima generazione).
I timori di Pechino
A Pechino tali misure non sono state accolte con favore da Xi Jinping, impegnato in questi giorni ad assicurarsi un terzo inedito mandato da Segretario Generale del Partito Comunista Cinese. Per capire come reagire il Ministero cinese dell’Industria e dell’IT ha convocato d’emergenza le maggiori aziende del settore che hanno convenuto sul fatto che le mosse di Biden avranno un effetto molto dannoso per l’industria cinese di semiconduttori. Infatti, quella dei circuiti integrati è la prima voce di import cinese (circa 350 miliardi di dollari), addirittura superiore al petrolio (circa 230 miliardi) di cui è di gran lunga il primo importatore mondiale. Inoltre, i principali produttori per i microchip più avanzati sono a Taiwan, che può ora utilizzare in senso strategico questo vantaggio.
Il punto di fondo è che Pechino aveva impostato la propria crescita economica su di un modello di crescita qualitativa che teneva in grande considerazione l’innovazione e la trasformazione della propria industria da basso ad alto valore aggiunto. La crescita qualitativa, tuttavia, è avvenuta sicuramente per effetto di ingenti investimenti statali e per il dinamismo del settore privato - soprattutto nel digitale – ma, in buona parte, grazie al trasferimento tecnologico dall’estero, in parte forzato, in parte lautamente ricompensato con profitti stellari per le aziende straniere. Con le attuali mosse americane, però, viene impedito il trasferimento proprio in quei settori vitali per l’economia cinese e in cui è più indietro in termini di capacità tecnologica. Si stima, infatti, che il ritardo in termini di innovazione nei confronti delle aziende taiwanesi sia di almeno cinque anni.
Non si tratta certo di una dinamica delle ultime settimane, ma di un processo di cui Xi Jinping è pienamente consapevole almeno dal 2020, quando ha presentato la cosiddetta strategia della Doppia Circolazione. Si tratta di una interpretazione dell’economia cinese come di una azione congiunta della circolazione esterna (interscambio e flussi di capitali con l’estero) e interna (consumi e innovazione). La svolta del 2020 è quella di una maggiore attenzione alla componente interna perché, in un contesto in cui è emerso dalla pandemia come l’interdipendenza abbia un valore strategico, era possibile che gli Stati Uniti utilizzassero la leva dello stop alle esportazioni di semiconduttori. La risposta cinese è stata quella di rafforzare l’autarchia tecnologica per non dipendere dall’estero per la fornitura delle tecnologie critiche.
Rimodellare l’innovazione in senso autarchico in un Paese in cui la componente ideologica è in crescita è, però, un esercizio complicato. Infatti, nel percorso d realizzazione di campioni nazionali nella produzione di semiconduttori si contano già casi di frode e di corruzione che mettono in dubbio l’effettiva capacità cinese di raggiungere gli obiettivi prefissati. Questi temi sono risultati centrali anche nel rapporto presentato da Xi Jinping in apertura del XX Congresso del Pcc. Il termine “sicurezza”, infatti è risultato secondo solo a “sviluppo”. Con sicurezza non si intendeva solo un aspetto di tipo militare, quanto piuttosto la difesa dell’economia dalle variabili geopolitiche.
Unione Europea: fortezza chiusa o ponti con l’esterno?
“L’Europa è un giardino in cui tutto funziona […] La maggior parte del resto del mondo è invece una giungla, e la giungla potrebbe invadere il giardino. I giardinieri non proteggeranno il giardino ergendo mura […] ma andando nella giungla. Gli europei devono essere più partecipi verso il resto del mondo”. Sono questi i passaggi chiave del discorso di Josep Borrell, Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri, alla recente inaugurazione della European Diplomatic Academy. Un discorso che si inserisce nel quadro della “autonomia strategica aperta” definita dalla Commissione Europea come disegno da perseguire a livello economico e commerciale e che riconosce – al pari della NSS statunitense – che “il mondo post-Guerra Fredda è finito”. I principi espressi a livello politico da Borrell sono in buona sostanza quelli che si riscontrano nello Strategic Foresight Report che la Commissione ha recentemente pubblicato nella versione aggiornata per il 2022, dove il controllo delle nuove tecnologie (non solo a livello di capacità manifatturiera ma soprattutto a livello di filiera, con riferimento a materie prime quali minerali critici e terre rare) sarà cruciale per vincere.
L’UE ha messo sul piatto risorse fresche attraverso lo European Chips Act lanciato a inizio 2022, con una dotazione di partenza (tra fondi pubblici e privati) di 15 miliardi di euro. E stanno arrivando investimenti privati significativi che porteranno alla creazione di “poli” dei semiconduttori anche in Italia, come i recenti annunci di Intel, STMicroelectronics e Tower Semiconductor. Tali risorse non sembrano però sufficienti rispetto a quanto Stati Uniti e Cina possono stanziare, e in questo senso sarebbe dunque fondamentale rafforzare la cooperazione transatlantica con Washington nell’ambito del Trade and Technology Council, forum promettente ma che fino ad ora non pare aver prodotto risultati così rilevanti.
La “guerra dei chip” prende forma
La ridefinizione dell’ordine economico globale dipenderà in buona parte da chi riuscirà a vincere la competizione per la leadership tecnologica. In questo senso, è ormai decisamente esplicita la “guerra” che gli Stati Uniti hanno dichiarato alla Cina, al punto che il decoupling di cui tanto si parla sembra messo in atto da Washington più che da Pechino alla luce delle recenti restrizioni all’export. Nei prossimi anni il ruolo delle politiche industriali (e dell’intervento pubblico – più o meno deciso) diventerà sempre più centrale; mentre quelle commerciali si orienteranno verso il raggiungimento di nuovi tipi di accordi che avranno focus bilaterale o regionale e che non saranno più finalizzati alla riduzione di barriere tariffarie ma si concentreranno sempre più sulla armonizzazione di standard tecnici e regolamentari per rafforzare filiere comuni.
All’interno di questo scenario, Stati Uniti e Cina saranno probabilmente i rivali principali, con l’UE che potrebbe essere condannata a un ruolo di “gregario” a meno di rafforzare significativamente i legami con gli USA partendo dalla “piattaforma” fornita appunto dal Trade and Technology Council. Quel che è certo è che i motori sono sempre più caldi e che questa gara definirà i principali trend geoeconomici dei prossimi anni.