È stato un travaglio lungo e complicato ma dopo quasi tre anni la Commissione ha presentato la sua proposta di riforma del Patto di Stabilità e Crescita (PSC). Lo fa in un momento in cui il PSC è sospeso e lo rimarrà fino alla fine del 2023 per affrontare la difficile situazione post-Covid e la guerra in Ucraina. Nel presentare questa riforma la Commissione dichiara di voler tener presenti le sfide di lungo periodo dell’Unione (sicurezza, transizione digitale e ambientale) e di voler contemperare la Stabilità (con un percorso di graduale riduzione dei debiti pubblici) con la Crescita (più equa e sostenibile). Insomma, cerca una complicatissima quadratura del cerchio attraverso la sottolineatura della “E” nel Patto di Stabilità E Crescita. Ma perché il PSC va riformato? Cosa prevede il nuovo Patto della Commissione? È adeguato rispetto alle sfide interne e internazionali dell’UE? E non ultimo: conviene all’Italia?
Un Patto vecchio e oscuro
Se sulla riforma del PSC nell’UE abbondano proposte e opposte visioni, sulla necessità della sua riforma c’è maggior consenso, anche se magari per motivi diversi. Per capire perché ripercorriamo all’indietro la sua storia: una storia lunga più di 20 anni. Il PSC è entrato in vigore tra il 1998 e il 1999 in concomitanza con l’avvio dell’Euro. Nel Patto vengono inclusi gli ormai famosi limiti del 3% al rapporto deficit/Pil e del 60% di quello debito/Pil. Per assicurare il loro rispetto vengono pensati un “braccio preventivo” e un”braccio correttivo”, con quest’ultimo che può portare a sanzioni (pari allo 0,2% del Pil).
Altri vincoli e obiettivi si sono poi sommati nel corso degli anni e soprattutto dopo la crisi dell’Eurozona quando si era andati vicini al collasso della moneta unica. Così dal 2011 tra Six Pack, Two Pack, Fiscal Compact si è proceduto a: rafforzare il “braccio preventivo”, anche attraverso il Semestre europeo (per un controllo preventivo e un monitoraggio più stringente delle leggi di bilancio nazionali); introdurre la Macroeconomic Imbalance Procedure per un monitoraggio delle principali variabili economiche dei Paesi ben oltre il deficit e debito; rendere obbligatori il pareggio di bilancio e la riduzione in 20 anni della differenza tra il livello debito/Pil di un Paese e l’obiettivo del 60%.
Insomma, le regole fiscali europee non sono il frutto di una riflessione unitaria ma la somma di varie misure che si sono aggiunte, e a volte sovrapposte, nel corso degli anni. Il risultato non è dei migliori: la crescita è stata bassa, gli obiettivi di deficit e debito non sono stati rispettati ripetutamente (anche da Francia e Germania), e comunque nessuna sanzione finanziaria è mai stata comminata (difficilmente i leader politici del Consiglio sono propensi a “punire” il leader di un Paese inadempiente). Il vecchio Patto risulta quindi complesso, oscuro, in parte arbitrario/impreciso (come nel caso del calcolo “teorico” dell’output potenziale) e sostanzialmente poco efficace nel ridurre il debito e sostenere la crescita. In ISPI abbiamo preparato lo scorso maggio un Policy Paper che spiega nel dettaglio i limiti del Patto e avanza delle proposte per un nuovo Patto. Alcune di queste sono (parzialmente) in linea con quanto proposto ora dalla Commissione.
Il nuovo Patto secondo la Commissione: 3 pilastri
La proposta della Commissione si fonda sulla giusta convinzione che le regole dovrebbero essere più chiare/semplici e avere come obiettivo una crescita equa e sostenibile seppur nel quadro di un credibile percorso di riduzione del debito. Sono tre i pilastri fondamentali di questa proposta.
Il primo riguarda la distinzione ex ante dei Paesi UE in tre gruppi, a seconda del loro livello di debito pubblico: basso (un rapporto debito/Pil inferiore al 60%), moderato (grosso modo tra il 60 e il 90%) e alto (oltre il 90%). In pratica, si prevede che la Commissione indichi a ciascun Paese un percorso di aggiustamento fiscale (e quindi di riduzione del debito) che ha come riferimento principale la spesa netta primaria, ovvero la spesa pubblica annuale al netto di entrate discrezionali (ad es. aumento delle tasse), degli interessi pagati sul debito e di misure legate al ciclo economico (ad esempio l’aumento dei sussidi di disoccupazione in caso di contrazione dell’economia). Quindi è attraverso la spesa pubblica (al netto di entrate discrezionali, interessi e ciclo) che l’UE monitorerà anno dopo anno il percorso di riduzione del debito di ciascun Paese. Per quelli ad alto debito (come l’Italia, la Grecia, ma anche la Francia), la riduzione/rimodulazione della spesa netta primaria andrà fatta entro 4 anni e questa deve essere tale da permettere una riduzione del debito pubblico in un arco temporale di 10 anni. In questi 10 anni, in ogni caso, dovrà essere rispettata la soglia massima del 3% del rapporto deficit/Pil. Il fatidico 3% quindi non scompare, così come non scompare il 60% del debito/Pil che rimane come riferimento a cui gradualmente tendere. Scompare invece (opportunamente) l’obbligo di riduzione del livello attuale del debito fino al 60% del Pil in 20 anni; obbligo troppo stringente e a cui nessuno ormai crede (l’Italia dovrebbe fare tagli – palesemente insostenibili – per 60-80 miliardi di euro all’anno). Se invece un Paese ha un debito moderato (come la Germania), la graduale rimodulazione della spesa pubblica può avvenire entro 7 anni (mantenendo comunque la soglia del 3% e il percorso di riduzione del debito entro i 10 anni). Ancora meno stringenti le regole per i Paesi meno indebitati (come i Paesi Bassi) che possono anche spendere di più e a cui si applica solo la soglia del 3% nell’arco dei 10 anni.
Il secondo pilastro di questa riforma è la forte enfasi sul contributo delle riforme e degli investimenti. Infatti, sulla base del percorso di aggiustamento indicato dalla Commissione, gli Stati dovranno discutere con la Commissione (e poi presentare) un Piano almeno quadriennale (“Fiscal-Structural Plan”) che includa appunto le riforme e gli investimenti (soprattutto quelli che rispettano obiettivi UE come la transizione verde e digitale) che intende fare. Se queste riforme/investimenti influiscono positivamente sull’aggiustamento fiscale richiesto, quest’ultimo viene proporzionalmente alleggerito e/o il periodo di aggiustamento può passare (anche per i Paesi altamente indebitati) da 4 fino a un massimo di 7 anni. Il Piano va approvato dal Consiglio e poi monitorato anno dopo anno dalla Commissione. È anche previsto che si possa derogare al periodo di aggiustamento attivando delle “escape clause” (che il Consiglio dovrà approvare) in presenza di contrazioni molto severe del Pil europeo o per shock del tutto straordinari che colpiscano un Paese.
Se dunque alcuni margini di flessibilità vengono mantenuti, e in un certo qual modo ampliati, il terzo pilastro della riforma del Patto, ovvero la parte riguardante l’enforcement e le sanzioni, diventa più stringente. Vediamo infatti cosa succede se un Paese non rispetta il nuovo Patto. Anzitutto viene mantenuta – con le stesse regole odierne per la sua apertura e chiusura – la procedura per deficit eccessivo (cosa non sorprendente dato che il fatidico 3% rimane). Ad aggiungersi è la procedura per debito eccessivo: se un Paese con debito medio-alto si discosta dall’obiettivo concordato nel proprio Piano questa procedura si attiva di default. Verrà anche creato un nuovo meccanismo di enforcement se le riforme e gli investimenti previsti dal Piano non venissero rispettate: in questo caso il percorso di aggiustamento fiscale diventa più stringente (quindi maggiori tagli alla spesa pubblica) e per i Paesi dell’Eurozona sono anche previste sanzioni finanziarie. Il Piano potrebbe essere riaperto/ridiscusso anche se un Paese presenta squilibri macroeconomici eccessivi oltre a deficit e debito (nell’ambito della Macroeconomic Imbalance Procedure che esiste già oggi e che viene rafforzata). Ma quali sanzioni rischiano gli inadempienti? La Commissione definisce le nuove sanzioni "smarter" e "more targeted". Oltre a quelle attuali (sanzioni pari allo 0,2% del Pil del Paese) si possono comminare sanzioni anche più modeste; la Commissione ritiene infatti che i leader politici del Consiglio saranno più disposti ad approvarle se queste non sono troppo alte (visto che finora nessuna sanzione economica è mai stata comminata). Vengono inoltre introdotte delle “sanzioni reputazionali”: i ministri dei Paesi che non rispettano il proprio Piano dovranno comparire davanti al Parlamento UE e spiegare come intendano rientrare dall’infrazione. Infine, si può arrivare a sospendere l’erogazione dei fondi comunitari ai Paesi inadempienti.
Un Patto che conviene all’Italia?
Per dire se questo nuovo Patto convenga o meno all’Italia, bisogna fare una premessa doverosa: la sospensione sine die del Patto attuale potrebbe rappresentare un boomerang per l’Italia. Spingere per sospenderlo anche oltre la fine del 2023 (ovviamente se il contesto economico-politico internazionale non dovesse ulteriormente deteriorarsi) potrebbe far aumentare la speculazione dei mercati sui Paesi più indebitati facendone schizzare in su lo spread. L’Italia ha tutto l’interesse perché “un” Patto di stabilità e Crescita ci sia: il ”libera tutti” potrebbe tradursi in maggiori rischi soprattutto se la BCE non fosse più disposta a fare quegli acquisti smodati di titoli che ha fatto negli ultimi anni. L’Italia potrebbe anche rallentare/ostacolare l’approvazione del nuovo Patto. Ma in questo caso rientrerebbe in vigore il vecchio Patto con tutti i vincoli, l’opacità, l’inefficacia e la complessità che ben conosciamo. Certo, il nuovo Patto presentato dalla Commissione non può definirsi semplice e chiaro, ma val comunque la pena di coglierne le potenzialità, cercando di ridurne le asperità e magari chiedendo che venga inserito in un quadro più ampio e ambizioso.
Riguardo alle potenzialità, va accolta con favore l’enfasi sulle riforme e sugli investimenti che possono contribuire a rendere meno stringente il percorso di aggiustamento del debito. In pratica la Commissione cerca di copiare l’esperienza di successo del Next Generation EU (NGEU) in cui le tranches dei fondi UE vengono erogate previo controllo sugli investimenti e sulle riforme fatte. Ma è bene ricordare che nel caso del NGEU c’è il bastone ma anche la carota (le sovvenzioni e i prestiti). Nel caso del nuovo Patto la carota sarebbe “solo” un periodo di aggiustamento più lungo di 3 anni. È qui che, in sede di negoziazione nel Consiglio, l’Italia potrebbe chiedere di adottare un quadro più ampio e ambizioso: se si rispettano i patti perché non prevedere un nuovo NGEU (o qualcosa di simile) dopo quello attuale? Tanto più che è evidente che malgrado gli sforzi di aggiustamento fiscale dei Paesi più indebitati sarà molto difficile per questi realizzare nei prossimi anni quegli investimenti che la stessa UE ritiene necessari per la sicurezza e la transizione verde e digitale. Un nuovo indebitamento comune inoltre renderebbe meno stringente (e quindi più ”digeribile” per i governi) il percorso di aggiustamento perché (come la Commissione stessa prevede con il nuovo Patto) tutti gli investimenti (e le riforme!) appunto possono operare in questo senso.
Nel processo negoziale dei prossimi mesi l’Italia dovrebbe quindi assumere una posizione laica verso il nuovo Patto, tenendo ben conto delle alternative nel caso in cui non venisse approvato. Peraltro, il percorso di approvazione del nuovo Patto sarà certamente ad ostacoli: critiche stanno già arrivando da alcuni Paesi frugali sugli eccessivi margini di flessibilità, e più in generale non è detto che ai governi (ovvero al Consiglio) piaccia l’accresciuto potere che ricadrebbe sulla Commissione. Ci sono poi, dal punto di vista italiano, varie asperità su cui bisognerebbe intervenire durante la negoziazione, come ad esempio l’avvio di default della procedura per debito eccessivo e la netta separazione ex ante dei Paesi in Serie A, B e C a seconda del livello del debito.
L’Italia dovrebbe quindi spingere per l’approvazione di “un” nuovo Patto capace di coniugare sostenibilità del debito e crescita, cogliendo le opportunità della proposta della Commissione ma chiarendo quello che reputa irricevibile e rilanciando sul livello di ambizione. Per riuscirci dovrà anche essere in grado di coagulare attorno alla propria posizione quella di altri Paesi UE.