La Turchia è oggi uno degli attori più attivi dello scacchiere mediorientale e mediterraneo. Dalla Siria alla Libia passando per il Mediterraneo orientale Ankara gioca un ruolo di primo piano nei principali conflitti e contesti di crisi della regione. Se l’ambizione a diventare, e a essere riconosciuta, una potenza regionale rimane una componente chiave della politica estera del Partito Giustizia e Sviluppo (Akp) fin dalla sua ascesa al governo (novembre 2002), questa ha subito trasformazioni importanti negli ultimi anni. A determinarle sono stati tanto fattori esogeni legati al progressivo deterioramento del vicinato mediorientale, divenuto sempre più instabile, conflittuale e frammentato dopo le rivolte del 2011, quanto il mutato contesto di sicurezza nel paese che ha profondamente modificato la percezione delle minacce interne ed esterne a livello di élite politiche e di opinione pubblica. In questo quadro, la politica estera dell’Akp in Medio Oriente, fino ad allora basata su soft power, mediazione diplomatica e integrazione economica che si riassumevano nel principio di “zero problemi con i vicini”, è diventata sempre più militarizzata e interventista. La svolta in questa direzione è avvenuta a partire dal 2015, con un’accelerazione dal 2016 quando Ankara ha lanciato la sua prima operazione nel nord della Siria. La Turchia attualmente è uno dei paesi più coinvolti militarmente nei teatri di crisi, trasformati negli anni in guerre per procura dall’intervento degli attori regionali impegnati in un acceso confronto geopolitico per la supremazia nell’area.
Nella riconfigurazione degli allineamenti regionali, Ankara si è trovata progressivamente isolata sia per le mutate condizioni nel suo vicinato mediorientale sia per precise scelte di politica estera. Tra queste non va tralasciata la politica di forte sostegno alla Fratellanza musulmana e ai gruppi ad essa affiliati che ha allontanato la Turchia da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, fermi oppositori del movimento, mentre ne ha favorito la convergenza con il Qatar, oggi suo principale se non unico partner in Medio Oriente, in un gioco che finora è risultato “win-win” per entrambi: sostegno militare turco al piccolo emirato da un lato, capitali qatarini all’economia turca in affanno dall’altro. Nello scenario mediorientale, l’asse Turchia-Qatar si configura come il terzo elemento nella competizione per l’influenza regionale che vede principalmente contrapposti il cosiddetto blocco sciita guidato dall’Iran e il blocco tra Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto. Mentre le relazioni di Ankara con Teheran continuano a configurarsi secondo la tradizionale dicotomia tra competizione e cooperazione, a seconda del contesto e degli interessi in gioco, le tensioni con Riyadh e soprattutto con Abu Dhabi hanno creato una ulteriore linea di faglia nell’instabile scenario regionale.
Se le ambizioni di leadership, l’accresciuta competizione regionale e il perseguimento di precisi interessi geostrategici, economici ed energetici sono alla base dell’assertivismo turco, nel paese si è assistito anche a un utilizzo sempre maggiore della politica estera come strumento per accrescere il consenso interno nei confronti della leadership politica. L’enfatizzazione delle minacce alla sicurezza nazionale e la rappresentazione di nemici esterni infatti non di rado sono state strumentali per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica in fasi di crisi interna e di calo dei consensi, e altresì per rafforzare un sentimento nazionalista negli ultimi anni sempre più diffuso, complice anche l’alleanza politica tra l’Akp e il Partito del movimento nazionalista (Mhp).
Non da ultimo, l’attuale politica estera turca include un’importante componente marittima, esplicitata nella dottrina della Mavi Vatan, la “Patria blu”, che riguarda il controllo delle acque del Mediterraneo orientale, dell’Egeo e del Mar Nero attraverso la proiezione militare. Un ruolo più attivo della marina militare turca nel sistema di difesa nazionale e nella competizione energetica in quelle acque nonché il potenziamento dell’industria nazionale della difesa costituiscono i pilastri di questa nuova dottrina marittima. Secondo quanto riportato dalla stampa turca che riprende i dati dello Stockholm International Peace Research Institute, la spesa militare turca è cresciuta dell’86% nell’ultimo decennio per raggiungere i 20,4 miliardi di dollari nel 2019. La difficile situazione economica del paese, aggravata dalla crisi pandemica, apre una serie di interrogativi sulla sostenibilità finanziaria dell’attivismo turco in politica estera. Tuttavia, se si guarda all’azione esterna turca degli ultimi mesi non sembra che le fragilità dell’economia abbiano costituito un freno per la proiezione esterna della Turchia.
La crisi siriana tra il nodo curdo e i rifugiati
Per affermare la propria influenza in una regione in profondo riassetto e fortemente instabile, Ankara si è spinta a giocare più partite su tavoli molto diversi. Indubbiamente, per prossimità geografica, interessi di sicurezza nazionale e percezione delle minacce, la partita più importante continua a giocarsi in Siria.
La sfida principale per Ankara è quella di assicurarsi una voce in capitolo nel futuro assetto e nella ricostruzione della Siria, la cui pacificazione tuttavia appare ancora lontana. Dopo avere sostenuto per anni il composito fronte dei gruppi di opposizione al regime di Bashar al-Assad, il governo turco ha lavorato, a partire dall’inizio del 2017, con Russia e Iran nell’ambito del processo di Astana per una soluzione negoziale del conflitto, dopo che l’intervento militare russo a fianco di Damasco nel 2015 ha allontanato la prospettiva di un rovesciamento del regime siriano. La partecipazione al processo negoziale con i principali sostenitori di Assad non ha tuttavia impedito alla Turchia di condurre tre operazioni militari – agosto 2016, gennaio 2018 e ottobre 2019 – nel nord della Siria per neutralizzare quella che, da una prospettiva turca, costituisce una grave minaccia alla propria sicurezza nazionale: la formazione lungo il suo confine meridionale di una fascia territoriale sotto il controllo delle Unità di protezione popolare (Ypg) che possa costituire la base per un’area autonoma curda. Le Ypg, milizie curde che hanno costituto il principale alleato degli Stati Uniti sul campo nella lotta allo Stato islamico in Siria, sono considerate dalla Turchia una compagine terroristica affiliata al Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan che da oltre trent’anni Ankara combatte sul piano interno. Dopo la fine di un accordo di cessate il fuoco con il Pkk nell’estate del 2015, l’azione repressiva turca nei confronti dell’organizzazione si è estesa anche ai paesi limitrofi. Non solo alla Siria, ma anche al Kurdistan iracheno dove la Turchia ha condotto ripetute operazioni transfrontaliere per smantellare le basi del Pkk lì dislocate. Ciò non ha mancato di provocare forti tensioni con il governo centrale di Baghdad, non da ultimo la scorsa estate quando un attacco turco condotto con droni armati ha provocato la morte di due guardie di frontiera irachene. La reazione del governo iracheno tuttavia non è andata oltre il richiamo dell’ambasciatore turco, facendo attenzione a non tirare troppo la corda con il paese che rimane uno dei suoi principali partner economici e commerciali. L’Iraq costituisce infatti il terzo mercato di sbocco per le merci turche, il cui valore superava i 10 miliardi di dollari nel 2019.
In Siria inoltre la Turchia ha lavorato per la creazione di una “safe zone”, cioè di una fascia di sicurezza libera dalla presenza di milizie curde lungo il confine meridionale della Turchia. Sia nelle aree settentrionali sia nelle postazioni intorno alla zona di de-escalation di Idlib, l’ultima roccaforte di resistenza anti-regime, la presenza militare turca in Siria è destinata a permanere, almeno finché Ankara non vedrà garantiti i propri interessi. Nelle zone del nord del paese occupate nel 2016 con l’operazione Scudo dell’Eufrate, nell’area di Tel Abyad-Ras al-Ain e ad Afrin, alla presenza militare è seguita da parte delle autorità turche la gestione dell’amministrazione locale, inclusa la fornitura di servizi essenziali, in quello che alcuni analisti hanno definito un processo di “turchizzazione” di aree a maggioranza arabo sunnite. La situazione è invece più complessa a Idlib – area di strategica importanza nella politica di pressione nei confronti del regime di Damasco – dove le truppe turche si trovano al centro di un difficile bilanciamento di forze con Mosca e Hayat Tahrir al-Sham (HTS), gruppo affiliato ad al-Qaida prima conosciuto con il nome di Jabhat al-Nusra, che Ankara avrebbe dovuto espellere dall’area in base all’accordo firmato a Sochi con la Russia a ottobre 2019. Il recente attacco russo nei confronti di un gruppo di ribelli sostenuto dalla Turchia ha infranto quella sorta di “calma apparente” che sembrava regnare a Idlib dopo il raggiungimento del cessate il fuoco tra Turchia e Russia a inizio marzo, accordo che aveva arrestato l’avanzata dell’esercito di Assad sulla roccaforte ribelli
Al di là del nodo curdo, altra questione cruciale per Ankara è quella legata al controllo dei flussi di rifugiati siriani. La Turchia, che già ospita il più alto numero di siriani fuggiti dal loro paese (oltre 3,6 milioni, secondo l’Unhcr), teme una nuova ondata di profughi alla sua frontiera meridionale nel caso si accresca la conflittualità a Idlib, dove milioni di sfollati sono confluiti da altre aree della Siria occupate dall’esercito di Damasco. Per far fronte al crescente malcontento interno nei confronti dei rifugiati il governo di Ankara ha promosso una politica di ricollocazione di centinaia di migliaia di siriani nelle aree a maggioranza curda “stabilizzate” del nord della Siria sotto il controllo turco, ponendo così le basi per una futura conflittualità interetnica.
Libia e Mediterraneo orientale: due facce della stessa medaglia
Nell’ultimo anno la proiezione esterna della Turchia si è notevolmente accresciuta anche in teatri, come quello libico, al di fuori del suo stretto vicinato. Proprio il coinvolgimento turco ha portato a un rovesciamento di fronte a favore del Governo di accordo nazionale (Gna) di Fayez al-Serraj nello scontro con l’Esercito nazionale libico (Lna) guidato dal generale Khalifa Haftar, che nell’aprile del 2019 aveva lanciato l’offensiva verso Tripoli. Grazie alla fornitura di armi, droni armati, attrezzature e addestramento militari nonché all’invio di mercenari siriani al soldo della Turchia, in virtù dell’accordo firmato con il Gna nel novembre del 2019 e in violazione dell’embargo Onu sulle armi alla Libia, Ankara è riuscita a ritagliarsi un ruolo tra i più influenti nella crisi libica, trasformata anch’essa in una proxy war tra fronti contrapposti nella competizione geopolitica regionale. Infatti, qui più che altrove è evidente la saldatura dell’asse Turchia-Qatar a sostegno di Serraj e della compagine di gruppi islamisti a lui vicini nonché la contrapposizione a Emirati Arabi Uniti ed Egitto che, con Russia e Francia, sono i principali sponsor del generale della Cirenaica. Contrapposizione che ha una dimensione tanto geopolitica quanto ideologica, nella misura in cui investe due distinte visioni dell’islam politico.
Come in Siria anche in Libia la presenza militare turca sembra destinata consolidarsi e a permanere nel lungo periodo. In quest’ottica, infatti, Ankara sta negoziando con il Gna l’utilizzo della base aerea di al-Watiya, riconquistata la scorsa primavera, in cui potrebbero essere dislocati F-16 turchi, e della base navale di Misurata, entrambe avamposti strategici per il controllo della parte occidentale del paese. Ad agosto inoltre è stato firmato un protocollo trilaterale, che include anche il Qatar, per la creazione di un centro di addestramento e cooperazione militare con l’obiettivo di organizzare un esercito nazionale libico che sostituisca la pletora di milizie che sostengono il Gna, sul modello seguito dalla Turchia in Azerbaigian a partire dal 1993.
L’aiuto militare turco al Gna rientra nel quadro di un accordo più ampio sulla ridefinizione dei confini marittimi tra Turchia e Libia e delle rispettive zone economiche esclusive in una fascia di mare strategica per le dinamiche di cooperazione energetica in quella parte di Mediterraneo. Con la sponda di al-Serraj Ankara cerca dunque di mettere in discussione non solo la delimitazione delle zone economiche esclusive definite da Cipro e Grecia nel Mediterraneo orientale sulla base della Convenzione Onu sul diritto del mare, ma anche gli accordi e i progetti di cooperazione energetica da cui gli altri stati rivieraschi l’hanno esclusa. Si tratta in particolare dell’East Mediterranean Gas Forum (Emgf), creato nel 2018 con la partecipazione di Cipro, Egitto, Grecia, Israele e Italia e dell’Autorità nazionale palestinese e trasformato a gennaio 2020 in una vera e propria organizzazione internazionale per coordinare le politiche energetiche dei paesi membri e dare vita a un mercato regionale del gas, nonché dei progetti di pipeline per trasportare il gas verso il mercato europeo, bypassando la Turchia. Tra questi anche il progetto di gasdotto sottomarino EastMed, per il trasporto fino a 16 miliardi di metri cubi di gas da Israele ed Egitto verso l’Italia attraverso Cipro e Grecia, passando per quel tratto di mare interessato dall’accordo Turchia-Gna. Se il rallentamento dell’economia mondiale e il calo della domanda energetica provocati dalla pandemia da coronavirus ha messo in stand-by l’ambizioso e costoso progetto (7 miliardi di dollari, secondo le stime), non sembrano invece arrestarsi le aspirazioni di Ankara a diventare un hub regionale del gas. Non si fermano neanche le esplorazioni energetiche nelle acque contese intorno a Cipro e nell’Egeo al largo dell’isola greca di Castellorizo, che hanno provocato forti tensioni con Nicosia e Atene, ma anche con l’Unione europea (Ue) intervenuta a sostegno dei suoi stati membri con la minaccia di sanzioni.
Ciononostante, la Turchia sembra intenzionata a estendere le esplorazioni energetiche anche al largo della Libia, come previsto dall’accordo di novembre 2019. Di recente, la cooperazione energetica turco-libica ha incluso anche la costruzione di due centrali elettriche e di infrastrutture di cui il paese è carente. Fortemente dipendente dalle importazioni energetiche per i suoi consumi interni, ha tutto l’interesse a diversificare le proprie fonti di approvvigionamento e a ridurre la dipendenza dalle importazioni di gas russo.
Se non appare immediato quale sia l'obiettivo di sicurezza nazionale di Ankara in Libia, sono tuttavia diversi gli interessi turchi in gioco nel paese nordafricano. L’intesa con il Gna infatti consente alla Turchia di avere una leva per estendere la sua area di influenza in Nord Africa e accrescere in tal modo la propria proiezione strategica nel Mediterraneo, mettendo in discussione e in alcuni casi scalzando posizioni consolidate di altri paesi, tra cui l’Italia. La Turchia ha inoltre l’interesse a riprendere quei progetti miliardari che le sue imprese di costruzione avevano in essere nel paese prima della caduta del regime di Muammar Gheddafi nonché a mettere una bandierina sulla ricostruzione di uno stato ricco di idrocarburi. In questa direzione si inserisce l’accordo di metà agosto tra Ankara e Tripoli per risolvere la questione dei progetti rimasti in sospeso, accordo che non da ultimo apre la strada a nuovi investimenti turchi in Libia.
Turchia e Russia tra cooperazione e competizione
Le crisi siriana e libica emergono oggi come tasselli collegati di una più ampia competizione geopolitica in Medio Oriente e Nord Africa (Mena). Tanto in Siria quanto in Libia la Turchia si trova a fare i conti con la Russia, il cui ritorno nella regione Mena è, insieme all’assertivismo turco, uno dei fattori che hanno inciso maggiormente sulle dinamiche geopolitiche dell’area negli ultimi anni. L’intervento russo a fianco del tradizionale alleato siriano ha rappresentato un indiscutibile game changer non solo per l’andamento del conflitto ma anche per il gioco di Ankara, costretta a modificare l’ordine delle sue priorità in Siria e a cercare un continuo compromesso con Mosca per tutelare i propri interessi. Allo stesso tempo è con il placet, spesso tacito, della Russia che la Turchia ha potuto lanciare le proprie operazioni militari in Siria e mantenere una presenza, non solo militare, nel nord del paese e a Idlib, assicurandosi in tal modo un ruolo nel riassetto del paese. Ruolo che oggi sembrerebbe volere sfidare quello di principale power broker giocato da Mosca sul fronte siriano e in misura diversa nel contesto libico.
Del resto, competizione e cooperazione sono le due variabili tra cui oscillano le complesse e multidimensionali relazioni russo-turche da quando, accantonata la contrapposizione del periodo della Guerra fredda, è iniziato un graduale processo di riavvicinamento dietro la spinta di reciproci interessi energetici. La Russia è di gran lunga il principale fornitore di gas di Ankara, nonostante la percentuale di gas russo sul mercato turco si sia ridotta negli anni, passando dal 65% del 2005 al 34% del 2019, sulla scia della politica di diversificazione degli approvvigionamenti energetici perseguita dalla Turchia. Se le relazioni energetiche – estese anche al settore nucleare dopo che la compagnia russa Rosatom si è aggiudicata la costruzione della prima centrale turca – costituiscono il principale pilastro dell’intesa tra Mosca e Ankara, col tempo la cooperazione ha incluso commercio, investimenti e turismo e di recente anche il settore della difesa, dopo che la Turchia ha acquistato il sistema di difesa missilistico S-400 dalla Russia.
Si tratta tuttavia di una relazione asimmetrica in cui il piatto della bilancia pende dal lato russo tanto in ambito energetico e commerciale quanto nel comparto della difesa. Asimmetria che però la Turchia sta cercando di ridurre anche attraverso un accresciuto impegno nei teatri di crisi. In generale, pragmatismo e interessi reciproci hanno forgiato i legami bilaterali all’interno di una cornice che è più tattica che strategica. Se è difficile ravvisare un comune disegno strategico per la regione Mena che includa la spartizione tra Ankara e Mosca dei teatri di crisi in zone di influenza diretta, sono invece evidenti i tentativi dei due attori di occupare gli spazi lasciati vuoti dal graduale ritiro degli Stati Uniti dall’area unito a un profondo disinteresse dell’amministrazione Trump a impegnarsi nella soluzione dei conflitti regionali. Ma mentre per la Russia l’obiettivo è soprattutto quello di indebolire le relazioni di Washington con i suoi tradizionali partner della regione (e in questo sembra avere avuto buon gioco con la Turchia), le mire turche appaiono ben diverse. Per entrambi, tuttavia, rimane aperta la sfida di pervenire a una soluzione duratura delle crisi in Siria e Libia, che interessi contrapposti e rivalità regionali continuano invece ad alimentare.
Al Risiko mediorientale si è aggiunto di recente un teatro fuori area: il conflitto in Nagorno Karabakh in cui sembrano delinearsi tra Turchia e Russia dinamiche simili a quelle già presenti in Libia e Siria. In virtù degli stretti legami culturali e linguistici con l’Azerbaigian, Ankara non ha esitato a prestare “sostegno incondizionato” ai fratelli azeri nello scontro con l’Armenia. Al di là del principio “una nazione, due stati”, le relazioni tra Ankara e Baku sono state consolidate negli anni da una cooperazione sempre più approfondita in ambito economico, energetico e militare. Anche qui gli interessi energetici costituiscono il pilastro principale della partnership: l’Azerbaigian è il secondo fornitore di gas del mercato turco e negli ultimi anni ha accresciuto la sua quota, passando dal 17% del 2017 al 21% del 2019, e raggiungendo il 23% nella prima metà del 2020). Infatti è proprio sul vicino caucasico che sta puntando la strategia turca di riduzione della dipendenza energetica dalla Russia. Inoltre, l’azienda petrolifera statale azera Socar è oggi il maggiore investitore straniero in Turchia. Sul piano militare la Turchia è tra i primi fornitori di armi e addestramento dell’Azerbaigian. Droni armati di fattura turca sono stati utilizzati nel conflitto dove si sarebbe registrata anche la presenza di mercenari siriani inviati da Ankara.
Dietro all’assertivismo turco e ai toni forti usati dal presidente Erdogan vi è anche qui la volontà di assicurarsi una voce in capitolo nel dossier del Nagorno-Karabakh e un posto al tavolo dei negoziati condotti dal Gruppo di Minsk a guida franco-russo-statunitense. In tal modo, Ankara mira ad accrescere la sua influenza nel Caucaso meridionale, tradizionale area di influenza russa, per avere una leva in più nei confronti di Mosca da utilizzare all’occorrenza in Libia e in Siria, in una logica dei vasi comunicanti che rischia non solo di ampliare lo scenario di crisi ma anche di sfuggire di mano.