«Il presidente è stato spinto in troppe direzioni e non credo che abbia sviluppato relazioni tali da potere cambiare nella sostanza l’approccio americano nella regione»: così Cristopher Hill, assistente per l’Asia della segreteria di Stato nella seconda amministrazione di George W. Bush, commentava una settimana fa gli esordi del viaggio in Asia di Barack Obama, conclusosi ieri, e che dovrebbe fornire un nuovo impulso alla strategia di rebalance degli Stati Uniti nell’area. Il pivot to Asia, inaugurato da Hillary Clinton in un articolo su Foreign Policy (11 ottobre 2011), cambiava volto nel 2012 con il secondo mandato dell’attuale amministrazione, con l’avvicendamento di John Kerry e l’impegno di una maggiore attenzione verso Est, una presenza navale più consistente nei mari asiatici e un passo in avanti nelle relazioni commerciali. A lungo, però, queste politiche hanno atteso di tradursi in risultati concreti, un indugio simboleggiato dalla posticipazione del primo viaggio in Asia di Obama, originariamente previsto per l’ottobre 2013 e posticipato a causa dello shutdown dell’amministrazione americana. Per questo, molti dubbi si sono affacciati all’inizio sulle reali possibilità del viaggio di Obama e, al suo ritorno, altre incertezze continuano a velare il futuro dell’influenza americana nell’area.
Il tour presidenziale, toccando Giappone, Corea del Sud, Malaysia e Filippine, ha affrontato i principali dossier aperti nella regione. Soltanto la Cina è stata lasciata da parte, ma è risultato subito chiaro che erano due i pubblici a cui parlava Obama in ogni sua tappa: i propri alleati regionali e Pechino stessa. A Tokio (23-25 aprile), Obama ha chiaramente affermato il dovere di onorare gli accordi di mutua assistenza e di difesa rispondendo in tal modo alla richiesta del governo giapponese di una netta presa di posizione. Nelle parole di Obama, un eventuale scontro con la Cina sulle isole Diaoyu/Senkaku, un arcipelago che potrebbe rivelarsi ricco di petrolio e gas naturale, costituirebbe una violazione della legittima “sovranità” giapponese e legittimerebbe l’intervento militare statunitense. Il presidente ha inoltre accolto favorevolmente la ristrutturazione dell’esercito giapponese, un progetto di lungo periodo del primo ministro Shinzo Abe, che ha reinterpretato le limitazioni costituzionali circa una forza militare di mera “autodifesa” nel senso di una capacità di pronto intervento in caso di conflitto con Cina e Corea del Nord. La reazione di Pechino, colpita su tutti i fronti imposti come tabù dai suoi media di stato, ha subito fornito la propria versione circa la storica appartenenza delle isole. La Cina non aveva invitato il Giappone all’edizione di Qingdao del Western Pacific Naval Symposium, conferenza biennale ad alto livello per regolare i rapporti fra le varie flotte militari (22-23 aprile), e le dichiarazioni di Obama hanno inoltre fornito il pretesto a un commentary apparso su Xinhua, l’agenzia di stampa governativa, di parlare di una “gabbia” in cui Washington vorrebbe rinchiudere la nascente potenza orientale. Perfino sul Quotidiano del Popolo, organo del Partito Comunista Cinese, è comparso un editoriale che si chiedeva se Obama fosse un “pompiere” o un “provocatore”.
Il protagonismo militare di Shinzo Abe non preoccupa soltanto Pechino ma anche Seul, divisa da Tokio da altre contese territoriali e memore dell’annessione giapponese (1910-1945). Le visite di personalità del governo giapponese al santuario di Yasukuni, dove fra gli altri riposano soldati e criminali di guerra della Seconda guerra mondiale, hanno infiammato l’opinione sia della Corea del Sud sia della Cina, anch’essa invasa dal Giappone negli anni Trenta. Per Seul, la situazione è molto più complicata poiché gli Stati Uniti costituiscono un partner strategico per la sicurezza. Durante il Nuclear Summit dell’Aja di fine marzo, gli amichevoli saluti fra Shinzo Abe e il presidente sudcoreano, Park Chung-hee, avevano destato alcune perplessità. Durante la sua visita (25-26 aprile), Obama ha rinnovato gli auspici di una cooperazione coreano-giapponese riguardo al problema nordcoreano dando l’impressione di potere influenzare i due alleati e far superare le diffidenze reciproche. Si tratterebbe, del resto, dell’unica opzione praticabile per Washington oltre a quella cinese. Il regime di Pyongyang ha però risposto negativamente: il "terzo tipo" di test nucleare, paventato negli scorsi mesi, è stato annunciato proprio in occasione del tour presidenziale mentre l’incontro fra Obama e Park ha indotto il Comitato per la riunificazione nordcoreano a ingiuriare apertamente il presidente del Sud. Il fatto che Pyongyang, nel medesimo comunicato, ponga un veto sulle proprie testate nucleari, indica come Pechino rimanga ancora l’unico attore che, apparentemente, possa condizionare la politica di Kim Jong-un. Per la Corea del Sud, il reale pericolo sembra provenire dal nord più che dalle dispute sullo scoglio di Ieodo che la separa dalla Cina.
La tappa malese del viaggio di Obama (26-27 aprile) ha spaziato sul fronte delle relazioni economiche fra Usa e Sud-est asiatico. La Trans-Pacific Partnership (Tpp), in particolare, costituisce un accordo di libero scambio che, oltre agli Stati Uniti, dovrebbe coinvolgere Australia, Brunei, Cile, Canada, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Peru, Singapore e Vietnam. Si tratterebbe del 39% dell’output economico mondiale. Nonostante le concertazioni siano state prese in mano da Washington nel 2011, gli incontri a livello ministeriale che si sono succeduti ogni anno non hanno raggiunto alcun risultato concreto. La Malesia è stata da sempre uno degli attori più sensibili sul tema della Tpp, che imporrebbe un regime di competizione particolarmente difficile da sostenere per l’economia locale. Questi accordi, infatti, non comprendono soltanto aperture sulle norme tariffarie tradizionali, ma stabilirebbero precise limitazioni e standard da rispettare per aziende private e pubbliche. Come atto di buon auspicio, Obama ha respinto l’incontro con il principale leader dell’opposizione, Anwar Ibrahim, attualmente sotto processo. Il premier Najib Razak, influenzato anche dalla corrente conservatrice del suo partito, ha accolto positivamente l’idea di un accordo di libero scambio bilaterale, ma ha contemporaneamente riaffermato che Kuala Lumpur procederà «secondo la sua spontanea volontà» sul tema della partnership multilaterale. Allo stesso modo, il Giappone, la cui economia è inestricabilmente legata a quella cinese, si era espresso in termini simili. In questo senso, esiste in Asia una forte integrazione a livello economico che supera i contrasti politici e si esprime in organismi regionali e trattati bilaterali senza che questo comporti la presenza di una potenza egemone.
L’annunciato accordo fra Filippine e Stati Uniti si è concretizzato lunedì in un Enhanced Defense Cooperation Agreement decennale, che dovrebbe assicurare la sicurezza del paese, specialmente riguardo alla disputa con la Cina sulle isole Spratly. L’intesa fra Manila e Washington è di lunga durata, il governo di Benigno Aquino III costituisce uno dei governi asiatici meglio disposti nei confronti degli Usa e, il 30 marzo, il governo filippino ha presentato, con il sostegno americano, una richiesta di un arbitrato internazionale sul contenzioso territoriale. Il patto firmato durante la visita di Obama (28-29 aprile) aprirà all’alleato d’oltreoceano i porti locali e permetterà una più consistente presenza navale statunitense che sembra puntare direttamente a Pechino, alla sua nuova portaerei Liaoning e agli sconfinamenti illegali di questi mesi in acque contese. Il ritorno delle basi statunitensi nell’arcipelago, già presenti dal dopoguerra al 1992, sarà accompagnato da un crescente numero di personale militare in visita. Queste misure, a giudicare dal discorso pronunciato da Obama, non hanno l’obiettivo di «contenere la Cina». In effetti, è vero che il presidente non ha parlato espressamente delle controversie sulle Spratly, fatto che ha generato sconcerto all’interno del parlamento, non interpellato sulla redazione finale dell’accordo. La reazione cinese ha subito accusato Washington d’innalzare la tensione nel Mar Cinese Meridionale, definendo il presidente americano un “istigatore”.
Al suo ritorno dall’Asia, Obama sembra aver dissipato in una parte degli analisti i dubbi che avevano accompagnato la sua partenza. Il presidente degli Stati Uniti ha scelto di dare un segnale forte alla Cina, la cui presente assenza nel programma di visite ha chiarito quale sia la posizione di Washington sulle problematiche asiatiche e quale sia lo spazio vitale dell’influenza americana nella regione.
L’altra parte del pubblico a cui il presidente si rivolgeva, gli alleati americani, era destinataria di un messaggio di rinnovato impegno e di disponibilità di mezzi militari, il cui risultato non è stato ovunque ottimale e il cui prezzo è consistito nell’irrigidimento dei rapporti sino-americani. Non sembra un caso che il più recente editoriale su Xinhua critichi Washington a partire dalla difficile gestione dell’empasse in Ucraina. Il discorso pronunciato da Obama a Kuala Lumpur, che annunciava nuove sanzioni contro Putin, ha avuto ripercussioni anche in Asia. Le scelte nette operate da Obama durante il suo tour, infatti, possono avere rassicurato momentaneamente gli alleati, ma sembrano corrispondere anche a un cambio di priorità nell’agenda politica americana in favore della più urgente situazione in Europa. In ogni caso, i prossimi due anni dell’attuale amministrazione statunitense dovranno, oltre che convincere gli alleati rispetto alla situazione attuale, e dimostrare di mantenere e sostenere il proprio impegno nella regione. In caso contrario, la Cina potrebbe cogliere una nuova opportunità di ostentare la propria solidità e la propria apertura, com’era già accaduto durante il mancato pivot del presidente americano nell’ottobre 2013. Gli Stati Uniti potranno effettivamente permettersi di essere duri con Russia e Cina allo stesso tempo?